An Speir hagus an Douar

(Ode alla poesia bretone)

In Irlanda “an spéir” è “il cielo” e in Bretagna “an douar” è la terra”; “hagus” è parola ibrida che appartiene a entrambe le lingue e sta a significare “e” (formata dal bretone “hag” e dal gaelico “agus”)

“…l’uomo che cammina nella notte brilla attraverso le sue lacrime come un fuoco sordo nell’alone di nebbia attorno alle sue spalle, l’ombra proiettata dal cuore ai piedi…”

Anne Hébert, Incontro – poesie antiche

Bretagne est Poesie

Bretagna è poesia” sembra una frase banale se non fosse che l’ha pronunciata Marie de France, poetessa francese (1159-1184) dell’Alto Regno della Luce Medioevale a significare che già ai suoi tempi questa terra era sorgente (stivell) di superbe creazioni dalla solidità elementare. “Una certa frontiera intima dell’anima si sveglia sempre in questi villaggi” aggiungeva.

Anche Jakeza Le Lay e Violaine Mayor nel 2002 hanno voluto titolare “Bretagne est Poesie” un loro cd in duo consacrato a testi bretoni di letteratura moderna (Per Denez, Anjela Duval, Roparz Hemon, Xavier Grall, Per-Jakez Hélias…) accompagnati da arpa bardica medioevale.

La poesia è passata dal bardo Gwenc’hlan a Jean-Pierre Calloc’h, da Maodez Glanndour a Tristan Corbière, da Max Jacob a René-Guy Cadou, da rapsodi ambulanti a ignoti cantastorie contadini, da mesi neri ad albe di rinnovamento.

Una leggenda narra che un Giorno Sacro (o Segreto) tutti i più begli uccelli canterini si riunirono sull’Albero-Poeta di Bretagna: Kanit, evnedigoù, kanet! (Cantate, uccellini, cantate!)

René-Guy Cadou Poètes & Chansons

In Bretagna c’è chi sostiene provocatoriamente che non esistano più poeti in Francia, che gli ultimi siano caduti sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale e che qualcuno scampato ai massacri, come Paul Valéry, non abbia avuto posterità. C’è chi giura che non ci siano più coraggiosi cavalieri, paladini capaci di attraversare qualsiasi ostacolo da una parte all’altra, con le parole. Che esistano al massimo dei bravi poligrafi che riportano immagini truccate, aspetti insignificanti, momenti d’assenza, luci semispente, parole mutilate, negate, rinnegate, abusate, sminuite. Insomma si tratterebbe di un circo di mercanti d’aforismi e di poveri verbi grammaticali abbandonati nei cestini dei teatri della storia.

Anche se c’è sempre in Francia chi si ricorda di riferirsi ai suoi grandi poeti, Nerval, Villon, Hugo[1], Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Aragon, Apollinaire…più spesso il visionario promontorio prometeico è lasciato nell’abbandono di una più confortante “terra piatta” d’ignoranza diffusa. Nessuna traccia di quel sacro fuoco del verbo sovrano che possedeva un tempo pastori e contadini: man mano che scorre il tempo, il materialismo più insolente che la storia abbia mai conosciuto, si pone al comando con auto-conferita autorità dilagante. E’ certo una esagerazione ma già Molière nel 1672 aveva portato in scena nel terzo atto de Les Femmes Savantes (Le intellettuali), poetuncoli grotteschi quali Trissotin e Vadius. Ĕlōhīms sembra permettere ogni nefandezza (oltre che fisica) anche intellettuale, pochi poeti al mondo, non hanno oggigiorno vergogna del canto.

Bob Dylan per primo, lo spirito di altri canta altrove: Leonard Cohen, Georges Brassens, Glenmor, Bulat Okudžava, Vladimir Vysockij, Piero Ciampi…sono sempre più ardue da trovare mappe per la strada delle “chiese vestite di foglie” che amava l’occitano Francis Jammes, quando pregava di poter “comparire al cospetto di Dio in mezzo ai suoi amati asini”. Ma questo deserto non appartiene alla terra di Bretagna che Julien Gracq di Saint-Florent-le-Vieil, chiamava “provincia dell’anima” e che Xavier Grall definiva “paese-musicista”. Charles Le Goffic di Lannion definiva Saint-Pol, Vannes e Tréguier delle “pallide città monastiche” e personalizzava Roscoff “seduta sotto il suo fico”, Morlaix “artigiana vivace” e Guingamp coperta da un “vecchio cappotto bucherellato e fuori moda”.

Molta della nuda poesia armoricana che fruga alla ricerca di armonia dietro fontane e menhir, ha gloria anonima che nell’Esagono è stata lungamente negata e umiliata.

Gilles Servat -Crachat

Ma nascoste nella storia sono le sue radici, profondamente piantate sottoterra, la sua lingua è di cenere ma, come cantava Gilles Servat, è “lingua fenice che rinasce senza sosta da un omicidio di cinquecento anni”.

Le parole degli Antenati

I Megaliti impongono misteriose archeologie osservate dall’orizzonte di una poesia che insegue l’immortalità di cui parlano le religioni ma al contempo quella della memoria. Proustianamente anela un tempo perduto da ritrovare, attraverso lo scavo della parola, la riflessione psicologico-letteraria, la poetica delle melodie, Eugène Guillevic di Carnac li definiva “schiaffi segreti che arrivavano dall’orizzonte in piena faccia, preistoria nel respiro”. La memoria comune un tempo era fondamentale, utilizzata con lo scopo di tramandare patrimoni tradizionali e mitici, per questo si leggeva sempre ad alta voce durante le cerimonie.

Quella bretone è una poesia icastica e che ha continuato a credere che le parole abbiano ovunque potere di trasformazione di spiriti e cicatrizzazione di cuori “Gwechall e oa pe arc’hoaz e vo er vro-mañ pe en un vro-all…” (Fu altrove o forse sarà domani in questo paese o in un altro…)

Tratta la terra come riflesso della mappatura del cielo, tenta continuamente di guardare da un’enorme lente che permetta di entrare nel pensiero degli antenati, quasi a soddisfare l’impossibile desiderio di annullare la distanza spazio-temporale. Le visioni e le suggestioni come le gesta compiute dagli esseri viventi nell’antichità, riposano nella terra e rivedono luce grazie alle parole da poeti contemporanei, archeologi di quelle tracce, come dovessero indicare il futuro. Anatole Le Braz di Duault scriveva: “En amzer goz me vero bepred” (Nei tempi antichi vivrò per sempre).

Youenn Gwernig Les derniers bougnoules

In Bretagna è la poetica che orna il capo di salutari tatuaggi di speranza “An douar a zo spered ennañ peb gwezenn e c’hoad zo spered enni, torret vo an anken gant ur c’han nevez, ‘vit ur bed nevez, ‘vit ur soered nevez” (C’è uno spirito nella terra e anche in ogni albero della foresta, l’angoscia sarà spezzata con un canto nuovo, per un nuovo mondo, per uno nuovo spirito). Ma è capace anche di far colare parole come sidro all’interno delle piccole tromenie bretoni annualie perfino, ogni sei, di quella Grande che conduce ai misteri del Paradiso Celtico, come quelle di Yves Cosson di Châteaubriant che sentenziava “acquasantiere secche, tabernacoli vuoti e secche anche le fontane miracolose”. Sono parole rimaste sovente celate di chi non ha inseguito una rinomanza, come quelle dello sconosciuto François Rolland Tangi, scritte nel 1956 e incontrate casualmente in un giorno lontano all’interno di un piccolo e sperduto archivio comunale, dal titolo ‘Vel Ma Plij Dit (Come ti farà piacere):

Ma kredez e teuio un ael
Sell ouzh an neñv ha chom sioul:
Aeled e-leizh a nij en neñv
Evit ar re o deus pellwel!
Ma kredez ez zo ret mervel
Kae d’az kwele ha chom sioul:
Ankou n’eo ket pell diouzh an ti
Pa ouel ar c’hi war blouz e douil!…

Se tu credi che verrà un angelo
Osserva il cielo e stai tranquillo:
C’è pieno di angeli in cielo
Per chi sa veder chiaro!
Se credi che bisogna morire
Vai a letto e stai tranquillo:
La morte è vicina all’alloggio
Quando piange il cane sulla paglia della cuccia!

Lo Spirito Bardico

Friedrich Nietzsche sosteneva che il contemporaneo fosse intempestivo, che fosse assolutamente impossibile comprendere il proprio tempo se non attraverso un anacronismo o una sfasatura. “Cerco la mia traccia, non una frontiera” sosteneva Merc Elder di Nantes.

E così, mentre la Loira avvolta da tempo brumoso si disputa lo spazio circostante le rive a seconda della stagione, il tempo rappresenta forse l’anima reale della poesia e della musica. Lo tengono serrato nella loro mani, attraversando parole e suoni sono in grado di creare sincronicità tra passato, presente e futuro, componendo magicamente un coro profondo.

Mantello Merlino
Mantello di Merlino di Angela Betta Casale

I poeti di Bretagna sono un po’ come Lancillotto e Merlino: hanno saputo attraversare tutta Broceliande, affrontando qualsiasi prova ad ostacoli pur di giungere alla fontana effervescente della Valle Senza Ritorno. Armand Robin di Plouguernével scriveva “tutti i nostri alberi sono fieri come commedianti che vengono a raccontarci di lunghe storie di viaggi che noi non comprendiamo e che ci fanno paura; la campana dell’Universo tintinna come un’infanzia…”

Sono passati mille anni tra l’arpa d’oro di Merlino e le parole di Chateaubriand (la primavera, in Bretagna, è più dolce che nei dintorni di Parigi, e fiorisce tre settimane prima, i cinque uccelli che l’annunciano, rondine, rigogolo, cuculo, quaglia e usignolo, arrivano con le brezze che albergano nei golfi della penisola armoricana) ma lo spirito bardico non è da cercare nei musei: quando si passa d’isola in isola nel golfo del Morbihan, è lui a farli sembrare passaggi iniziatici verso un Immaginario dove il tempo non è ciò che sembra. Lo sapeva bene anche il grande François-René di Saint-Malo quando sosteneva: “passato e presente sono due statue incomplete: una è stata estratta tutta mutilata dagli avanzi dell’età, l’altra non ha ancora ricevuto la sua completa perfezione dall’avvenire.”

Max Jacob di Kemper, dal canto suo, lasciava che la propria penna impazzisse seguendo il ritmo, non perdeva certo tempo a tornare indietro lungo i versi a correggerla, per guadagnare briciole di chiarezza o musicalità. Aveva da frugare piuttosto tra i cespugli alla ricerca delle “bestie dello zodiaco”: “Uno stormo di piccioni sopra un melo, uno stormo di cacciatori, niente piccioni, uno stormo di ladri, niente mele, non rimane che un cappello di ubriaco appeso al ramo più basso. Bel mestiere il mercante di cappelli, mercante di cappelli di ubriachi. Se ne trovano un po’ ovunque dentro i fossi…quando sarò ricco come Kermarec acquisterò un frutteto di mele da sidro e dei piccioni domestici…”

Proverbi paesani

Sono saggezza semplice e fatalismo feroce che hanno generato delle campagne gli arcaici enigmi contadini di poesia popolare, nella Puglia italiana di Matteo Salvatore si parlava di bambini nati da un colpo di tosse o di “chi pecora si fa, il lupo se lo mangerà”. Nella Bretagna, dove Tristan Corbière di Morlaix, poetava fin il proprio crudo epitaffio “morto ma non guarito dalla vita, morì attendendosi di vivere, visse in attesa di morire”, i proverbi popolari invece recitano: “chi porta la propria carne sulla schiena? è la vecchia brughiera rivoltata dal vomere che porta la propria carne sulla schiena”, “chi va per primo al mercato con le lacrime agli occhi? è la testa del grande cammino che ha occhi che brillano di rugiada”, “quante piume ha una gallina? quante stelle ha la luna a brillarle intorno”, “quale grande virtù di Natale, ditemi, porta la luna piena? al tempo natalizio, la luna piena mette lino in ogni solco”…

[1] Hugo sottolineava di essere nato da “sangue bretone e lorenese insieme”, la madre Sophie Trébuchet era infatti originaria di Nantes e fu proprio lei a spingere il figlio minore Victor (al tempo, sedicenne) a coltivare le proprie qualità poetiche

Testo e traduzioni a cura di Flavio Poltronieri

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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