Lunga ode al Folk Bretone (Magnificat della Bretagna alla sua musica)

Il Folk è un avventuriero dello spirito, sguardo prima che lingua, una di quelle immagini che entrano dagli occhi e precedono le parole.
Il Folk è un miraggio illusorio, porta finzioni che posseggono tutte le qualità delle storie vere, è glen-mor.
La strada del Folk sembra il lamento in un incombente oltre, un sentiero di riflessi poetici.
Il Folk bretone, come il suo mare, non chiede permessi per insinuarsi, tradizione è trasmissione, non esiste opposizione col movimento perché il fatto stesso di trasmettere implica già un moto.
Il Folk di Bretagna è un ontano marittimo e selvaggio, piantato in un tempo antenato che trae forza dal fondo roccioso.

Alan Stivell– Ys

L’onirico Folk di Bretagna non immagina mondi ma li crea raccogliendoli da quelli delle fantasie e facendoli apparire come veri. Che l’elaborazione della memoria musicale trovi dimora ancestrale custodita in una parte profondissima del cervello, è la scienza a insegnarlo.

Il Folk è un avventuriero dello spirito, sguardo prima che lingua, una di quelle immagini che entrano dagli occhi e precedono le parole. E’ un idealista che lavora di spirito sulla materia, in paziente ricostruzione, proprio come facevano gli antichi Celti, sempre pronti a negare la propria storia per inventarsela meglio. A questo Folk è facile credere quando vivi ogni giorno sotto un cielo in costante minaccia di pioggia oceanica, fitta di improvvisi scintillii e arabeschi di bruma, riflessi di schiuma in mezzo a lame di luce. Un cielo inclinato sotto il peso di queste masse di nuvole impalpabili e sprofondate nel vuoto, che mute ti riversano addosso a tonnellate la loro minuscola freschezza azzurra.

Il Folk è un miraggio illusorio, porta finzioni che posseggono tutte le qualità delle storie vere, è glen-mor. Glen (terra) incolta, fertile e di umida oscurità, di rami arrotondati, di pendii spogli, di colline blu dove antiche disperazioni si sono addormentate. Luogo che punta dritto all’oltremare, all’ebbrezza delle grandi esplorazioni, ai colpi di scena arguti e selvaggi. Mor (mare) che salva senza tener conto del secolo in cui si trova a viaggiare e tra sé e villaggi, il suo cammino d’acqua non si interrompe mai.

Un mare scontroso e commovente che vive nelle geometrie variabili di spazi da riempire, si perde e riaffiora tra strazi e tormenti d’onda, poi si perde di nuovo in sbriciolamenti pietrosi. Inutile immaginare i paesaggi della costa, non sai mai per davvero che città ti prepara, che varchi, che aperture, che atmosfere: lo scorgi incanutito e un’ora dopo ritrova intatta tutta la sua gioventù di lusinghe e tenerezze. E’ il mare il Virgilio della Bretagna, alla faccia di grafici, cartine topografiche e previsioni meteorologiche.

Lo capisci a guardare le vecchie immagini che sono lì a testimoniare come gli antichi pescatori di alghe assomigliassero a degli strani esseri anfibi, fradici di spruzzi marini, inzuppati nella fatica e sudati al fuoco dei forni di soda. Gente che masticava pochissimo francese, avvolti di fumo acre, abitanti di buchi tra rocce e vecchi scafi rovesciati. Un tempo nelle isolette bretoni la scala dei valori non era quella attuale, un litro di vino rosso era talmente raro che, potendo, lo lo si preferiva a qualsiasi cosa, anche al doppio del suo prezzo. Ancora oggi ne vive qualcuno di questi selvaggi contemporanei che portano impressa nelle linee del viso, l’antica scultura del mare.

Il Folk è l’artefice di questa vertiginosa architettura millenaria, anche il cerchio delle onde marine fa parte della famiglia, oblìo compreso, perché è un cantastorie capace di accorciare o amplificare le distanze dell’immaginario collettivo, di esprimersi senza intermediazioni culturali o sentimentalismi eterni. Possiede la semplicità tipica dei poteri elementari. Il Folk è un cronista bohémien di dilemmi e conflitti arrivati dal passato della vita privata e sociale di società perdute. I suoi viaggi possono durare cinque minuti ma sembrare epoche, raccontano di cose incredibili come fossero reali e di cose reali come fossero incredibili. Il Folk è un esploratore che rivela anfratti oscuri e rimbombi di cunicoli nascosti, un commissario dalle indagini antropologico/culturali millenarie, mentre sopra di lui la storia si attorciglia nello scorrere la luce di quegli stessi secoli. Nelle sue canzoni ogni avvenimento ha un alone sacramentale dove spaventosi personaggi terrorizzano anche se hanno sulle spalle tremila anni. Perché il Folk è capace di attualizzare ogni racconto. E’ Libro di Memoria che prepara gli aggettivi avveniristici facendo cantare e ballare le povere genti, con un suono che vola dai fiori gialli alle profondità degli anfratti blu. E’ Acqua che sembra di Misericordia.

Qualche decennio fa è stato anche un fantasma dai capelli lunghi che voleva abbattere gli eserciti, si mobilitava in massa rifiutando il nucleare e le “maree nere”, percorreva i “cammini di terra” cercando di evitare la devastazione del proprio “bocage”. La sua ispirazione era rivendicativa per la patria terrena ed era contemplativa per quella celeste, recava nell’ombra il regno e nella luce la tentazione. Ha visto sorgere dal nulla cantanti popolari che esprimevano ad alta voce quello che tutti intimamente pensavano. La maggioranza muta ha fremuto nel sentir tuonare la campana a morto del proprio silenzio, delle false parole o di quelle taciute; alcuni si nascosero, altri si svegliarono, altri ancora si radunarono.
Decine di anni dopo sono ora gli storici, gli economisti, i sociologi, i demografi a concludere che il mondo occidente oramai ha perso il timone ed è arrivato al tramonto della civiltà. Bella forza: lo sostenevano già il Profeta Isaia, William Butler Yeats, T. S. Eliot, Leonard Cohen.

Se vai a Saint Malò, città corsara, la gente è “maluina prima, bretone può darsi, francese per quel che resta”. Non importa se la storia reale antica è un’altra: solamente i pirati agivano davvero per conto proprio, i corsari erano al servizio del Re di Francia, nemici giurati unicamente degli odiati inglesi. Ma la Bretagna è anche la terra delle canzoni di montagna, poco importa se di monti non ne possiede e le sue non sono che modeste collinette, la più alta è “Roc Trévezel” (384 metri) persa in mezzo a ajoncs, korrigans e ardesie. Le consolano i canti di valli solide e instabili che truccano l’orografia e confondono i rilievi della superficie terrena dei Monts d’Arrée con quelli sottomarini di Ys.

La Bretagna è Terra di Bardi, di Tumuli delle Origini, di Arpe Esistenziali, di Limo Immortale, di Pietre che scivolano da sole nell’acqua affinché l’onda possa meglio arrotondarle. E’ terra di fari, Max Jacobs li definiva “arcangeli”, menhir marini, ciclopi con la testa fra le nuvole e il corpo conficcato per terra. Sono pietra opaca scolpita da tempeste fino alle vertigini o “ceri ardenti piantati nella carne vergine della notturna cattedrale” come li cantava Gilles Servat. Tra Atlantico e Manica, vicino allo Scoglio del Crapaud, quello dell’Aber-Ildut è il faro che illumina il più grande porto di alghe d’ Europa. Più in basso, a picco sull’alabastro, se ne ergono altri, spuntando da ciuffi d’erica e cardi selvatici, schiaffeggiati dai venti e dalle urla strazianti dei goélands. Questi uccelli sono la musica e gli sguardi d’Armorica, ondeggiano incessantemente sull’arcipelago roccioso al ritmo delle correnti, ne estendono i volumi, trasformano i crepacci di corridoi rocciosi in orizzonti di luce. L’armonia dei fari permette piena coesione tra terra e acqua, disvela le nebbie dei loro regni, proietta un balletto di immagini che portano la storia nel credo di dimensioni antichissime. E’ questa la “Strada dei Fari”, poi arriva l’ora nella quale è il falco che gira intorno agli abissi blu, avvolgendoli del suo volo silenzioso.

Se invece il granito è rosa allora ti trovi sulla Costa des Ajoncs, tra Paimpol e l’isola di Bréhat, nei fiordi della “Costa delle Leggende” impera quel colore che ha fenditure profonde d’acqua e millenni. L’oceano è spinto da luna e sole a entrarvi per due volte al giorno. Il Folk è colui che si interroga su quali misteriose interazioni organiche vi trovino in quegli ondeggiamenti microscopici, in quegli adattamenti simbolici, in quegli scambi millenari di polveri minerali tra acqua e terra.
Quando viene buio profondo il Folk si affida allo sguardo delle donne del Finistère per arrampicarsi sui pietroni fino al cielo e scorgere l’essenziale, l’occhio di fuoco che il sole ha rubato alla luce del giorno.

I fari sono sentinelle impavide, “torri nude su rocce deserte” (Virginia Woolf), spirali di pietre che conducono dove in un colpo solo si possono scorgere tutti gli orizzonti che si possono desiderare. Una volta erano i monaci dell’Abbazia benedettina di Pointe Saint-Mathieu, a tener acceso il fuoco durante le notti di tempesta. Dietro c’è Perros Guirec, frazione di Ploumanac’h (“Palude del monaco”), che sonnecchia protetta e nello scuro tutto scorre tranquillamente.

Nei luoghi dove le persone sembrano scomparse, Bestie e Suoni diventano padroni incontrastati, in primavera soprattutto, quando la terra e l’orizzonte tremano, gli animali si risvegliano, le zolle iniziano a stiracchiarsi e magre spighe verdi vibrano impercettibilmente. Ma durante il tempo invernale quando tutto appare immobile, l’idea della primavera dimora unicamente nella civetta delle Montagne Nere o nella ruota dello scoiattolo che appare sotto il sole immaginato. E’ l’ora della tradizione del silenzio, della strategia dei piccoli segreti, delle cose taciute (come direbbe Cesare Pavese). Le stradine del bosco sono ben più misteriose delle arterie delle lontane e popolose capitali ed è in quei momenti che la nebbia della valle prepara la giornata che verrà. Presto si respireranno le modulazioni di gabbiani e usignoli, la loro frase complicata che li conduce all’assenza di gravità; presto apparirà dal nulla la forza nera di merli che frugheranno tra le foglie sparse; presto si illumineranno quelle piccole e fuggitive scintille dei pendii chiamati scriccioli. Tutti annunciati dallo sfrecciare delle rondini nei vasti spazi oceanici vuoti, come sottili sciarpe argentate sopra i solchi della terra sventrata. Scriveva Gaston Couté a fine ‘800: “le rondini, uccelli di speranza, fendono le crepe della nebbia a grandi colpi d’ali, rapidi e netti come colpi di forbice”.

Nei flutti delle acque difficili della Bretagna le reti pescano sogni differenti o affogano solitarie in suoni dove qualcuno cerca energie e altri cercano musica. La strada del Folk sembra il lamento in un incombente oltre, un sentiero di riflessi poetici “Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso, si usano le opere d’arte per guardare la propria anima” (George B. Shaw). Una parola dona il tono, prende prima voce e poi melodia, facendosi canto, che fin dalle etnie primitive esorcizza, liberando da ogni tipo di male, dolore e sofferenza. Esistono innumerevoli tradizioni leggendarie, a partire dalle favole di Esopo, dove sono gli animali a parlare. Nei Bestiari chi ascolta cantare o chi canta canzoni, non sempre riceve però buona sorte: certo “il canto del gallo” annuncia l’arrivo di un nuovo giorno ma quando lo cita Gesù riferito a Pietro, ha un significato sinistro e premonitore. Poi ci sono “il canto del cigno”, “il canto delle sirene”,“il canto del grillo” che si dimentica perfino di mangiare. In Bretagna gli animali hanno ispirato nomi di copricapi e motivi di ricamo, pelli e piume sono servite ad abiti tradizionali e costumi cerimoniali. Dietro scialli, mantelli, cinture, gonne, corsetti, scarpe, bottoni si nascondono pecore, maiali, galli e sardine come altrove accade per cammelli, emù, bachi da seta o balene. L’apparizione di un animale nelle canzoni popolari rimanda sempre a mondi arcaici, alle anime defunte, a delle tracce misteriose, rivelatrici o favolistiche. Le conoscenze scientifiche finiscono soppiantate da allegorie e fantasticherie in un Folk capace all’istante di rappresentare vizi e virtù di protagonisti a cui gli animali, spesso parlanti o dispensatori di massime sagge, si rivolgono con consigli (più o meno seguiti). Niente di nuovo: tutto ciò avveniva già nelle pagine di letteratura latina o in quella greca di Aristotele. Oppure nella Genesi: “…allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati…”

Il Folk bretone, come il suo mare, non chiede permessi per insinuarsi, tradizione è trasmissione, non esiste opposizione col movimento perché il fatto stesso di trasmettere implica già un moto. E se la vita è sia permanenza che cambiamento, la fedeltà creatrice di una tradizione conserva il passato come supporto e matrice dell’avvenire. Un antico detto popolare afferma che se si veglia sulle radici solamente per amore dei fiori, questi rischiano di seccare già domani per mancanza di linfa. La tradizione del Folk ci ricorda l’origine, il passato come riflesso dell’eterno e l’avvenire come proseguimento dello stesso. Le storie del Folk non appartengono a nessuno e a nessuna regione particolare, ogni prodotto popolare è trasmigrato assai facilmente e in modo del tutto incontrollato, da luoghi ad altri. Le stesse melodie o gli stessi canti delle nostre stanze, con poche variazioni, risuonano in bocche lontane e così è per i balli. Anche in Bretagna esisteva una volta, una variazione di danza ogni villaggio e bastava agli anziani danzatori contadini spostarsi di dieci chilometri per rimanere allibiti e confusi da quello che stavano ascoltando. Esistono sottigliezze nell’interpretazione, difficilmente percepibili ad un ascolto superficiale, un plinn può venir confuso con una gavotta o viceversa e, senza riferimenti precisi, anche quei danzatori non si ritrovavano più. E’ capitato che, ad un certo punto, non sapessero nemmeno cosa danzare. Ma, anche senza spartiti, in tutta questa Regione una gavotta è sempre perfetta per allungare le gambe rocciose delle pietre. Il Folk di Bretagna è un ontano marittimo e selvaggio, piantato in un tempo antenato che trae forza dal fondo roccioso. Nonostante gli ondeggiamenti del tempo, mantiene inalterata la sua eleganza anche quando si curva e se è l’arpa a suonare, lui da quell’estremità di dita e corde che si toccano, trae respiro e vita.

Mi chiedo: ma il “sommo poeta” quando sosteneva che la più bella nostra musica in Terra altro non è che rumore in Paradiso, lui, Dante, che la descriveva come il “salire del tintinnare di una cetra che poi si trasforma nel fiato di una zampogna”, lo aveva mai ascoltato il Folk Bretone?

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.