Gérard Ducos: Reinventare l’alba dove nascono le vertigini

Gérard Ducos
Gérard Ducos

Basco, è stata la Bretagna a renderlo bretone. Gérard Ducos è arrivato a Brest via mare nel 1968, risucchiato dalle forze misteriose che vibrano tra questi scogli e che accentuano i contrasti delle linee e dei caratteri. A quel tempo gli zoccoli risuonavano ancora sui selciati della Recouvrance, la riva destra del Penfeld, il quartiere popolare bretone, in contrasto con il quartiere francofono di Brest-même (o Brest-propre) che si trova invece sulla riva sinistra. Per le strade scoppiavano gli albori dell’età d’oro: fervore, comunione, poesia e musica da Armor e Argoat. Lo accolsero “Chez Mémé”, “Le bistrot de la femme serpent”, le ombre della notte, gli operai de “l’Arsenal”. In quel periodo il successo della canzone “Henrik” di Graeme Allwright sovrastava il rumore del porto. Iniziarono lì le sue prime acidule canzoni, con nella mente la poesia espressionista e surreale di Pierre Mac Orlan, le appassionate “lezioni dignoranza” alla facoltà di Brest di Georges Perros e sulle tracce di Woody Guthrie. Lo presentavano come un “cantante di temperamento”. E in quei luoghi un giorno incontrò Glenmor e un’altra Bretagna. Una terra che lui decise di adottare definitivamente (e non il contrario). Sui Monts d’Arrée Gérard Ducos è rimasto per tutta la vita, chitarra in mano, povertà e indignazione nello stomaco, a cantare del fuoco, della luce ed del vento che disperde gli elementi e che da forza ai campi. La casa veniva chiamata Kouch Taol (la Squadra della Tavola) e si trovava tra Botsorhel e Botmeur.

…E il mio nome fugge nella bassa Navarra
Spinto dal vento forte degli alti Pirenei
Non brillerà mai al sole delle vittorie
Di una terra sconosciuta ai miei stanchi occhi.
I miei occhi stanchi di scavare la leggenda
Raccontando il povero nome del padre di mio padre
E’ ai contrabbandieri che oggi domando
Portatemi laggiù e passiamo la frontiera…
E imparerò i cieli dove fugge la gavina.

Gérard Ducos: collage tecnica mista

Gérard Ducos: Canto la terra

Di queste zolle Gérard Ducos possedeva la rudezza e il calore, la stessa voce che invoca la sorgente con grida vibranti gettate in faccia al mondo fabbricato da una pretestuosa civilizzazione (“Il cielo ha messo il suo velo di nuvole grigie, fino al cuore delle stelle si irrigidisce di noia e spinta dal vento la canzone di un paese mi ritorna picchiando le porte dell’oblìo…che linguaggio è dunque questo?…non sono più i tempi dei morti per la patria, la patria misconosciuta, evviva l’anarchia…”).

Il suo è un tentativo di rimettere in questione la scrittura stessa, un’incursione nella materia del linguaggio, perché se ciascuno possiede un viso, allora possiede anche delle parole che a contatto con la realtà si allargano e si uniscono in una sorta di anamorfosi. La sua poesia è semplice, dipinta con le tinte dell’anima, Gérard Ducos è un onesto viaggiatore senza rimpianti, coperto di storia, che canta quel che vive, non i sogni

(“A cosa ti serve sognare nelle notti fredde e stellate? A cosa ti serve sperare quando troppe mani sono stanche di aspettare…a cosa ti serve tracciare tanti sentieri nella vallata? A cosa ti serve regnare su una terra abbandonata?…A cosa ti serve cantare, soffrire tanto, spolmonarti ai venti contrari del mattino? A cosa ti serve, saltimbanco? Qui i pianti sono di regola e i singhiozzi spezzano la nebbia…Bretagna è morta, ai Franchi svenduta per una parvenza di libertà alle ore calde dell’estate…io chiamo senza eco, amico, io sono un lungo viaggio ma tu sei il mio scalo”).

Antico marinaio

Gérard Ducos, come fosse un antico marinaio, ritrova nella poesia i miti del suo viaggio, dove il porto diventa semplicemente scalo per un altro porto.

Mi sono imbarcato a bordo di questo paese per una traversata lunga come una vita, nel cavo della tempesta gli spruzzi sono di regola, di tribordo alla mia testa il vento trasporta lo spavento…per la stella di notte nel paese della cuccagna ho firmato un credito in un porto di Bretagna e poi mollate l’ormeggio dalla banchina dei miei dispiaceri, senza tamburo né fanfara, senza addio della mano…”.

Gérard Ducos: Récits de mer

La sua canzone anti-nazionalista odia la violenza, mescola la chitarra al lavoro quotidiano e non sa dove si trova il centro del mondo, tra le righe incontriamo sovente le parole “viaggiatore”, “vagabondo”, “pellegrino”. Nella sua canzone la sola frontiera è la finestra dove tutto s’interroga, tutto può essere e tutto si afferma in fondo al silenzio, dove il respiro geometrico imprime i suoi misteri al vetro. Una canzone al largo (“Le pietre che si svegliano e che cantano la notte non potranno inchiodare alle porte della vita, la speranza…mai sarà tenera la mia voce di mendicante…”).

Quella di Gérard Ducos è anche una canzone-specchio, di pace e di lacrime ma mai disperata, canzone dell’oggi come del XIII° o XIV° secolo, canzone che celebra l’amicizia con altre voci di Bretagna. Con Serge Kerguiduff, innanzitutto, fratello con cui ha condiviso serate e canzoni nelle bettole, con Xavier Grall, di cui ha onorato le righe della sua recita bardica e con Glenmor, il cui sguardo blu “penetrava nelle profondità dell’anima”: “Due cavalli in preda al panico sulla strada nell’odore del fumo, del fumo punto dal gelo, la canzone del ritorno dopo una notte di dubbi, vicino ai tavernieri e ai commercianti di sale, un sorriso per dannare tutti i santi della terra…la stanza degli ospiti, i marciapiedi di Parigi quand’erano marinai, i risvegli mattutini nella città-dormitorio e il mare per finire, quando ricomincia la storia, la lama di un coltello sotto un cielo di Pont-Aven, quando i colori si annoiano sulla tavolozza di Gauguin, la segatura di un bistrot per sputare il tuo odio e tonnellate d’amore per contrastare i veleni. Mi ricordo di quegli istanti rubati al tempo che separarono le nostre corse vagabonde…

Poesia di fratellanza

E’ una canzone che al grido di “Passanti, fermatevi, in nome della poesia!!!” celebra la vicinanza con i tanti spiriti che sente affini a se stesso:

Garcia Lorca (…nella ferita dei violini, andiamo a rischio di noi stessi…nella radura delle canzoni andiamo a rischio di perderci…nel concime delle passioni andiamo a rischio di tacere…nel ricordo di un bavaglio andiamo a rischio di dolori…)

Victor Jara (…la musica delle parole e il canto di speranza nel collo di questo bambino lacerato dalle mani di un impensabile odio…questo canto disperato non è che un altro supplizio…)

Tristan Corbière (…sotto i colpi del tempo, senza scudi, mi ha malmenato ben forte la vita a briglia sciolta e in cima alle briglie, niente…lasciato, annoiato, passato, niente, non mi ha lasciato niente)

Kenneth White (Sono nato l’altro ieri nelle latebre di un solco e il vento del mare ha forgiato le mie passioni…sono nato dalla brace nel fondo del camino e il vento delle falesie mi porta via senza piegarmi, sono nato nel vuoto di un inverno di grigiore, lavo i miei capelli nelle nebbie delle semine…

René-Guy Cadou (…poiché tutta la mia vita è fatta di silenzio…allora cosa vi importa un grido nel naufragio, il fardello della mia gioia è un magro bagaglio, di dolore, mio Dio, ne ho avuto abbastanza, la mia ombra fu la mia sola campagna di viaggio) e il suo Albergo delle Quattro Strade dove “la morte fa spesso visita, il padrone non è attraente ma ci si bevono ancora tutti i liquori forti dell’Avvento

Paol Keineg a cui dedicato “Je sais des chemins” (Conosco dei cammini di coltelli abbandonati dove dei pellegrini costruiscono città…gente di questa terra, gente della miseria guardate le vostre pietre che muoiono senza far rumore…)

Fino anche al poeta Gérard Le Gouic, che teneva un negozio di souvenirs a Quimper, la cui insegna recitava “Telen Arvor” (“L’arpa armoricana”):

J’écris
Parfois sur mes paupières
– Fermé pour cause de rêve –

J’écris
Parfois sur mes lèvres
– Fermé pour cause d’ennui –

J’écris
Parfois sur mes mains
– Fermé pour cause de guerre –

J’écris
Souvent sur ma boutique
– Fermé pour cause de poésie –

J’écris
Parfois sur ma poitrine
– Fermé pour cause d’amour –

Scrivo
Talvolta sulle mie palpebre
– Chiuso per sogno –

Scrivo
Talvolta sulle mie labbra
– Chiuso per noia –

Scrivo
Talvolta sulle mie mani
– Chiuso per guerra –

Scrivo
Talvolta sul mio petto
– Chiuso per amore –

Scrivo
Spesso al mio negozio
– Chiuso per poesia –

oppure a Paul-Alexis Robic, umile funzionario, nato a Quistinic, nel Morbihan, con la sua poesia di fratellanza “Araignées d’eau”, degna di San Francesco d’Assisi, il primo poeta della letteratura italiana:

Araignées d’eau, araignées d’eau
Mon beau tailleur, mes beaux ciseaux
Coupez la soie et le satin
De l’eau qui rit dans le matin
Coupez la moire et le velours
Des humbles mares au printemps
Coupez la bure des étangs
Dans les rousses forêts d’automne
Et vêtez-en les pauvres gens
Qui ramassent des feuilles mortes
Sans oublier les mendiants
Qui vont chantant de porte en porte

Ragni d’acqua, ragni d’acqua
Mio bel sarto, mie belle forbici
Tagliate la seta ed il raso
Dell’acqua che ride al mattino
Tagliate la seta marezzata ed il velluto
Degli umili stagni di primavera
Tagliate il saio degli stagni
Nelle rosse foreste dell’autunno
E vestite le povere genti
Che raccolgono le foglie morte
Senza dimenticare i mendicanti
Che vanno cantando di porta in porta

E ancora Pierre Jakez Hélias, Max Jacob, Eugène Guillevic, Antonin Artaud, René Guyomard, Woody Guthrie, Charles Le Quintrec, Lewis Caroll, Georges Perros, Honorat de Bueil Marchese di Racan, Louis Le Cunff, (poeta e giornalista musicato anche da Maripol in “Mère noire” e “Les croix de Broëlla ”)…

E infine, ma non ultimo

Jack Kérouac (…a percorrere la propria vita di paese in paese, le radici muoiono per mancanza di terra…a cantare gli amori del pazzo della montagna, la voce perderà il volo per diventare più saggia…dalle vene blu delle braccia cola un sangue bretone* che trasporta delle canzoni casualmente in città…)

* Kérouac aveva un antenato bretone che era vissuto nel XVII° secolo ed era emigrato in Canada. Per generazioni i Kerouac custodirono il mito di questo progenitore di nome de Kervoach, originario di Huelgoat, sui Monts d’Arrée, il padre di Jack coltivava le antiche tradizioni e talvolta gli diceva: “Ti-Jean, non dimenticare che sei bretone!” Il primo giugno del 1965, desideroso di ritrovare le sue radici, lo scrittore visitò invano gli archivi parigini, Jack credeva di essere il primo ma in realtà quando nacque nel 1922, erano già due secoli che la sua famiglia stava cercando di risalire al proprio antenato. Negli anni trascorsi sulla strada non mancano riferimenti alla Bretagna, ma verso la fine della sua vita, l’abuso di alcol e droga aumentò una monomania per le sue origini. Per due volte emigrato, una vita intera passata a vagabondare, Kerouac fece della Bretagna una sorta di àncora. Indizi di questa ossessione ogni tanto se ne trovano anche nella sua produzione letteraria, per esempio alcune poesie di “Mare” (in appendice a Big Sur del 1962) sono animate da suoni bretoni (“Ker plasc”, “Kerarc’h”), che ricordano proprio il rumore del mare quando si infrange contro le rocce. Kérouac scrive: “I pesci nel mare/ Parlano bretone / Io sono Lebris / De Keroack”. Lo scrittore, che affermava il suo vagare bohémien come un bisogno da cui non poteva sfuggire, all’interno di questo suo quartultimo romanzo, oltre a far urlare al suo personaggio autobiografico (Jack Duluoz) di essere bretone, inserisce nel testo svariati elementi linguistici francofoni a testimoniare la propria genetica e si riferisce a un’antica fase storica ben precisa quando scrive: “…il mare deve essere profondo, io ti vedo Enoc’h, presto e dopo nell’Antica Britannia..” A New York, Jack conoscerà il poeta bretone, allora emigrato, Youenn Gwernig, diventandone amico e spesso parlando della Bretagna, i due si riprometteranno pure di partire per Huelgoat, ma la morte arrivò prima, il 21 ottobre del 1969. Dopo trent’anni, la storica Patricia Dagier e il giornalista Hervé Quéméner ripercorsero la vicenda nel libro “De l’Amérique à la Bretagne” (ripubblicato in Francia nel 2019 in occasione del 50° anniversario della morte di Jack) con ingarbugliati studi genealogici e diedero infine la soluzione: l’antenato si chiamava in realtà Urbain-François Le Bihan de Kervoac, era figlio di un notaio, e scomparve dagli archivi verso il 1729, perché la sua morte non fu mai registrata. Oggi in Bretagna, a Huelgoat, dove viveva anche Youenn Gwernig, una targa ricorda Urbain-François e a Carhaix, nel Finistère, gli artisti salgono sul “palco Kerouac” durante l’annuale festival di musica locale.

Gérard Ducos e “l’inceltitudine”

A Scrignac, lo si può ancora ascoltare nella sua “inceltitudine”, Gérard Ducos, intonare il blues, che “puoi cantarlo solo se passa attraverso te stesso, questo blues che trovi in tutte le forme di espressione musicale popolare, dalle isole Ebridi ai campi di cotone americani, perché il sudore è sempre lo stesso”.

La sua poesia generosa che parla della terra, quella che ancora sopporta cattedrali, lavori e vendette, nell’Occidente come in tutti gli altri paesi del mondo, dove degli uomini tentano di chiamarsi, perché solo così i loro nomi resteranno mescolati nel vento. Come affermava la poetessa bretone Emilienne Kerhoas, che fu spinta alla poesia proprio dai silenzi delle rocce e delle brughiere dei Monts d’Arrée: “ero solo una straniera ferita sotto il fogliame di un pretesto ma accarezzata dallo spazio, eccomi qui al margine di un testo


– trascrizioni all’ascolto e traduzioni italiane di Flavio Poltronieri (dal volume “Koroll Ar C’hleze” – Danza della Spada – Raccolta di testi bretoni contemporanei – 1985)

Dal suo sito:
http://gerard.ducos.free.fr/bio.htm
http://gerard.ducos.free.fr/disques.htm
http://gerard.ducos.free.fr/ecoute.htm

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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