Il Culto Ungherese del Sole

Sole, splendi luminoso, non con l’oscurità di quando piango il mio paese…”

Nello scorrere dei secoli le terre ungheresi sono state un crogiuolo di influenze: dalle asiatiche iniziali, attraverso le influenze delle dominazioni di Unni, Avari, Magiari e Turchi, fino a quella austriaca. Con in più la loro particolare lingua di ceppo finnico accerchiata da quella neolatina rumena a est, da quelle slave a sud e da quella germanica a ovest.

La Danza del Sole

Ogni alba il sole appare a est. Anche gli Ungheresi dicono di venire da est, affermano che all’alba dell’umanità, fu la Magica Cerva[1] a guidarli, seguirono la scintillante Luce del Sole in mezzo alle sue corna e il Principe Csaba[2] li protesse lungo il leggendario Sentiero Stellato. Erano partiti all’arrivo della primavera, quando la natura rinasce, alla ricerca del loro posto sotto il Sole.

Sostengono che le ragazze erano sorelle del Sole, che i raggi d’argento del Mezzogiorno illuminavano un mondo stanco e che sentivano non fosse più tempo per loro, di conservare il calore del passato.

Così, mentre erano in attesa di una pioggia purificatrice e sentendosi estradati dalle forze della natura, cercarono di assicurarsi la benevolenza della suprema Buona Volontà, attraverso la magia di una serie di movimenti in circolo. I maschi impararono a farlo proteggendosi l’un l’altro, mentre le donne si separarono dall’ardente stordimento delle danze, simboleggiando in questo modo l’ancestrale sacrificio al Sole, per ottenere amore e salute.

Il potere della Natura che si incarna nell’unione tra uomo e donna fece si che il sole scintillante all’orizzonte prendesse per mano questi esseri umani proiettati verso tempi disperati. Esseri sonnecchianti nel grembo del futuro, emozionati dal vento di eterni addii, con pensieri vaganti sulle ali di sogni che si placavano solo nell’ostinazione delle speranze. I poteri della profondità e del diluvio infuriarono sulla terra e le anime disperate emisero alfine il loro grido di redenzione. Questo narrano nelle loro leggende.

Rege a Csodaszarvasról

Patrimonio ancestrale

Come porsi oggi dinnanzi alle fascinose musiche e parole che, giunte da un lontano passato si rivolgono alla nostra anima di bambini? Secoli ci separano, una infinità di tempo che, nonostante tutto, nemmeno immaginiamo ma che non sono che sciocchezze, parentesi, virgolette nella metamorfosi eterna delle canzoni. E’ utile distinguere tra le due facce di tutti i patrimoni etnici europei: da una parte quelli conosciuti per esserci pervenuti per iscritto e dall’altra quelli trasmessi a lungo oralmente. Durante i tempi rinascimentali in Francia, per esempio, le classi sociali più facoltose erano bi-culturali, i piccoli apprendevano canzoni e racconti popolari sia dalle bàlie che dalle scuole.

Oggi esistono quasi ovunque archivi, registrazioni, professionismi ma tutto parte sempre da eredità in cui sovente i confini sono confusi: alto e basso, sacro e profano, colto e volgare finiscono per compenetrarsi e influenzarsi a vicenda. Le canzoni tradizionali, le villanelle o le opere di musica antica sovente si accoppiavano con la tradizione rurale; anche nelle nobili corti, illustri compositori grazie a ciò ottennero successi caricando musiche di intensi sensi popolari o facendo diventare lirica una poesia, dove semplici parole si trasformavano in incantatorie.

Nella maggior parte dei paesi, come l’Ungheria, è toccato unicamente agli ambiti familiari o alle svariate comunità elette nei villaggi, insegnare le tradizioni alle nuove generazioni che arrivavano.

Quelle storielle popolari erano frutto della vita quotidiana e della storia degli uomini e per questo le loro labbra e la loro memoria non le hanno mai dimenticate. Potevano cambiare luoghi, nomi, melodie ma le vicende umane sempre quelle erano, tenuto conto ovviamente degli avvenimenti caratteristici di tempi e territori.

La Musa alata

Le variazioni testuali spesso hanno rappresentato una mappa formidabile da consultare, riflesso dell’evoluzione dei linguaggi nel corso di secoli e secoli. Ma anche ad osservarle musicalmente offrono testimonianze culturali preziose, le più antiche possiedono una concezione melodica modale, le più recenti sono influenzate dalla coscienza armonica nascente. Si misura anche da questi particolari l’evoluzione della vita della gente, si possono immaginare dall’ascolto di una semplice melodia, distanze percorse e cammini affrontati per giungere all’oggi. Che sia espressa con il ballo, il colore o la parola, la musica incarna e svela il lato nascosto, la dismisura e l’ubriacatura dionisiaca, accoglie la luce del sole e la ricrea talvolta anche a contrasto, come nei dipinti di Caravaggio. E poi altre luci, come quella della luna, ripetono le tenebre come controparti delle forme radiose dell’orizzonte apollineo.

I romantici ritenevano che la musica fosse la forma più sublime e alata di espressione artistica, gli scienziati moderni, al contrario, hanno dimostrato che si tratta di un principio assai materiale, fatto di particelle che cozzando l’una contro l’altra, formano una catena che giunge all’udito.

I musicisti preferiscono assecondare quel che prediligono suonare le corde, le pelli o i tasti dei loro strumenti. Ma c’è anche, e ci sarà sempre, qualcuno come Vinicio Capossela, pronto a sostenere che basti guardare le gambe di un pianoforte per capire se si tratta di una femmina o di un maschio “sottili, aggraziate, tornite, segnate da eleganti scanalature” nel primo caso, “dritte e rigide”, nel secondo.

La tromba balcanica

Sulla rotte terrestri lungo i Carpazi in mezzo agli abeti rossi, è la tromba balcanica a chiamare a raccolta la gente per danze o celebrazioni, a donare un significato preciso a ogni atmosfera, sia essa energica o malinconica. A differenza di quel che succede in occidente dove il suo suono incita prevalentemente alla battaglia.

In Serbia chi suona la tromba è considerato il Re della regione. Ce ne siamo accorti tutti quando negli anni novanta siamo stati travolti dai suoni impetuosi delle Orkestar di Kočani o di Boban Marković, quando l’accoppiata portentosa Kusturica/Bregović si unì a quelle di Brecht/Weill, Angelopoulos/Karaindrou o Fellini/Rota. Al tempo non lo sapevamo ma era dal 1961 che a Guča, distretto di Moravica, nell’area di Dragacevo (Serbia ovest), c’era un Festival estivo di trombe che avrebbe fatto impallidire Miles Davis. Ma non certo Don Cherry che sicuramente lo conosceva. L’amore per questo strumento è datato 1831, ad opera del Conte Milos Obrenovic, nessun momento della vita serba si svolge senza il sublime suono delle trombe, le troviamo ovunque nel folklore quotidiano, nessuna politica, nessuna bomba lo ha potuto spegnere. Non c’è uno studio rigoroso dietro tanta passione, nessuno di questi talentuosi e disordinati musicisti sa scrivere o leggere spartiti. Questa parola non esiste neppure nel loro vocabolario, le note sono scalfite unicamente nel cuore, seguono lo stile di vita zingara che vede la musica come protagonista assoluta.

Vinicio Capossela & Kocani Orkestar – Ederlezi_ Zampanò (live1999)
Kocani Orkestar Djelem Djelem
Boban Marković

Musica tzigana

Le arcaiche melodie tradizionali magiare utilizzavano la stessa scala anemitonico-pentatotica di cinesi, mongoli o greci, dove le parole possedevano funzione ritmica e onomatopeica (parlato-rubato), quelle moderno invece no, è rimasta unicamente la scansione ritmica in tempi dispari. Una volta erano i contadini gli unici musicisti ad eseguirle nelle svariate occasioni dei cicli naturali durante l’anno o in quelle familiari e di lavoro collettivo, si trattava di canti di mondatura del grano, mietitura, filanda, matrimoni, nenie infantili.

Finché non comparvero straordinari strumentisti girovaghi di ceppo zingaro (portatori ovviamente anche di un patrimonio musicale gitano rurale proprio, diffuso in tutta l’area danubiana e balcanica). Quella che oggi ascoltiamo e che superficialmente viene definita “musica tzigana” non è né la musica ungherese tradizionale, né quella autentica zingara, bensì una di più recente composizione (Béla Bartók la definiva “musica colta popolaresca”) influenzata da melodie popolari ed eseguita inizialmente da violinisti tzigani riuniti in bande cittadine[3].

In Ungheria l’otto per cento della popolazione gitana, circa 40/50.000 persone, rappresenta la cultura “boyash”, vivono nelle quattro provincie trans-danubiane del sud: Somogy, Tolna, Zala, Baranya e vengono comunemente chiamati una cosa tipo “zingari tagliatori di mangiatoie”. Questo deriva dalla loro abilità nella lavorazione del legno anche se oramai ben pochi di loro praticano quest’antica arte artigianale. Ce ne sono anche in Romania, in Slovacchia, in Croazia, anticamente erano schiavi delle miniere, costretti nel XIV secolo a vivere nei Monti Apuseni e a perdere l’abitudine di parlare la loro lingua rom in favore di quella rumena. I Rom di lingua romanì li chiamavano “falegnami” (kashtale), parlano un antico dialetto arcaico originario della Romania che conoscono solo loro poiché col tempo a causa dell’isolamento non si è evoluto parallelamente alla lingua rumena. La loro musica è composta di danze rapide e di fatalistiche canzoni d’amore lente:

…quando mia madre si sposerà di nuovo suonerò il violino alla cerimonia,
quando andrò sotto le armi la casa sarà vuota, quando ritornerò mi sposerò:
questo se le cose andranno bene…
il giovane cuculo sta chiamando in cima al pino,
il suo canto annuncia l’estate…
l’oca è andata verso il ghiaccio, lei torna a casa a notte tarda…
bevo tutto il tempo e non mi ubriaco perché il tuo vino è diventato aceto…
mio fratello ha lasciato il villaggio la sua capanna è vuota,
crollata, invasa, piena di povertà, erba, erba verde, cosa sta facendo Dio?
ci sono fiori gialli nella casa, i galli neri iniziano a cantare, le campane suonano…
il diavolo si è nascosto nel mio bastone la sua danza nelle mie gambe…

Béla Bartók

Si deve a Bartók lo straordinario lavoro di recupero che ha sottratto all’obìo la sublime teoria di modi esecutivi della musica tradizionale d’Ungheria. Documentò più di duemila melodie girando per le campagne fin nei villaggi più remoti, registrandole su rudimentali rulli di cera, lo fece anche con un migliaio di rumene e cinquecento slovacche. Le studiò, trascrisse, catalogò e promosse presso il suoi circuiti accademici, le basi stesse della moderna etnomusicologia partono dal suo lavoro appassionato e da quello di Zoltán Kodály, i lavori compositivi di entrambi vennero copiosamente influenzati da tutta la musica popolare incontrata.

Gli strumenti tipici

Violino a parte, in Ungheria ci sono strumenti tipici di enorme fascino: oboi popolari ad ancia doppia, flauti di legno a cinque o sei buchi, “tambura”, specie di mandolino meno panciuto che spesso si ritrova nelle terre slave. Quindi “gardon”, sorte di violoncello ritmico popolare con quattro corde percosse con un bastoncino di legno, “citéra” (spinetta della “grande Piana”), cetra con corde sia di bordone che melodiche suonate con il plettro oppure l’evocativo, trapezoidale “cimbalom” composto da corde tese che producono ciascuna un’unica nota, distese sulla cassa armonica e fatte vibrare da due martelletti. E poi esistono numerose varianti di cornamusa, con canna di canto per melodia e canna (o canne) di bordone continuo: in quelle del nord il fiato vi è imesso direttamente dalle labbra del suonatore, in quelle del sud l’aria che fa vibrare le ance, viene invece generata da un soffietto collegato alla sacca, posizionato tra tronco e avambraccio del musicista.

Il folk-revival ungherese che è sorto contemporaneamente a quello celtico, pur situato fuori dagli ambiti teorizzati da Bartók, non lo ha certo mai dimenticato, spingendo l’innovazione a livello di Clannad, Steeleye Span o Malicorne. Si tratta di formazioni oramai diventate storia d’Europa, quali Kolinda, Vizonto e Makám con discografie da brividi.

[1]  “il Csodaszarvas si riferisce ad una leggenda rinvenuta in una Cronaca del XIII secolo (Gesta Hunnorum et Hungarorum di Simon Kéza), secondo cui durante la caccia, i fratelli Hunor e Magor, figli del mitico sovrano dell’antica Mesopotamia, Nimrud, allontanatisi dal padre si persero e girovagarono finché videro una miracolosa cerva dorata con una stella sulla fronte, la luna sul ventre ed il sole sulla fronte che li condusse ad occidente verso una terra ricca e generosa nell’attuale bacino dei Carpazi che per posizione, fertilità, abbondanza di selvaggina e favorevoli condizioni climatiche riconobbero come meritevole d’insediamento. Sposarono due principesse figlie di un misterioso capo locale diventando i capostipiti di due popoli, gli Unni (Hunor) e Magyar (Magor). Il Csodaszarvas, sorta di antenato totemista, che brillava di riflessi multicolori con le sue corna scintillanti di luce, è stata perciò vista ed interpretata come una potente dea della fertilità, madre dei Magyar, vera e propria guida divina che ha portato alla fondazione del popolo ungherese.
https://ungherianews.com/2021/01/14/csodaszarvas-e-turul-gli-animali-nella-mitologia-ungherese-2/
Si vedano i paralleli con la mitologia celtica in Il Dono del Cervo e in Spirito di Cervo e Danza di Renna
[2] il principe Csaba è un mitico condottiero Unno figlio di Attila. Dopo la sua morte continuò a proteggere il suo popolo dai nemici cavalcando alla testa di un esercito del Cielo e scendendo sulla terra da un sentiero luminoso tracciato dalle stelle. Sempre secondo la leggenda il principe Csaba condusse Árpád e gli ungheresi sui Carpazi e nella terra che oggi è conosciuta come l’Ungheria.
[3] approfondimento a cura di Flavio Poltronieri
https://www.blogfoolk.com/2020/12/appunti-musicali-da-ungheria-e-dintorni.html
Abbasso i confini! (Zibaldone da est)

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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