Andrea Seki – Lost Memory of Humanity (Atlanteans Resonances, 2025)

L’arpa celtica, strumento verticale, risulta simbolicamente perfetto per unire Terra e Cielo, nello svolgersi della vita terrestre rappresenta le tensioni tra gli istinti materiali dell’essere umano e le sue aspirazioni spirituali, perfettamente figurate dalle vibrazioni delle corde. E’ dinamismo misurato che simbolizza esso stesso, l’equilibrio della personalità e l’autocontrollo a cui l’uomo tende. Le arpe sono verticali come lo sono i menhir, esaltano la ricerca della felicità quotidiana in una vita dove niente è certo più della morte e niente più incerto della sorte nell’oltretomba. In antichità come nei tempi moderni. Nel corso proprio degli anni della nostra esistenza terrena, in Bretagna si è avverato un periodo musicale folk che più che essere storico, a molti è sembrato preistorico. La seducente arpa celtica che esisteva unicamente nelle mani di un qualche sparuto neo-druido ha iniziato a germinare nello spirito dapprima degli idealisti per poi rivelarsi definitivamente al mondo dopo secoli di sonno. La rinascita è avvenuta quando le mani unite di destino e fatalità hanno cominciato a mescolare azioni di ricerca identitaria con fantasia, entusiasmo, invenzione. “Fiat lux et facta est lux”. In meno di un secolo un enorme numero di personalità si sono interessate e adoperate con tutte le loro forze per farla vivere: liutai, musicisti, compositori, insegnanti, studiosi, appassionati, ascoltatori. L’energia e la creatività dispensate a questo piccolo strumento sono state stupefacenti, impensabili e assolutamente non prevedibili. Hanno spinto pure l’insegnamento a cambiare radicalmente. In tutta la Francia fino agli anni ‘60 del secolo scorso, l’accesso al campo musicale in generale, era elitario e sovente eredità familiare: si seguivano le orme di un qualche genitore o pro-genitore. Grazie in primis a persone come la sempre compianta e mai dimenticata amica Kristen Noguès (1952 – 2007), l’arpa celtica non è più uno strumento appartenente a un genere musicale unico ma possiede letteratura multiculturale, si è tramutata in formidabile territorio di ricerca, anche distante dagli accademismi classici. Ha raggiunto perfino riconoscimento istituzionale, infatti da una decina di anni per i suoi studenti più talentuosi è previsto in tutta la Francia, un diploma di maturità che consenta loro di accedere a una formazione artistica superiore a livello professionale. Indubbiamente anche grazie ai successi planetari di Alan Stivell “uomo giusto al momento giusto”, figlio di un destino segnato dal padre Jord Cochevelou che gli ricostruì quasi dal nulla un’arpa celtica medievale.

E ricordi perduti, speranze di rinascita, potere di creazione e natura trasformativa dell’amore sono anche i temi centrali dell’ultimo disco di Andrea Seki “La Memoria Perduta dell’Umanità” pubblicato all’equinozio di quest’anno. Le sue composizioni fanno un resoconto musicale di una società in piena decadenza morale e spirituale, al termine di una fase del proprio ciclo vitale e oramai in preda a materialismi e superficialità emotivamente devastanti per l’individuo. Qualcosa di certamente opposto alla memoria delle arpe le cui origini rimontano alla più alta Antichità, già si ritrovano nella regione mesopotamica Sumer (oggi Irak), a Babilonia, in Assiria e Egitto.

In Armorica sembra siano state portate verso il 480 a.C. da missionari immigrati e perfino Riccardo I “Cuor di Leone” nell’anno 1189 esigerà gli arpisti alla cerimonia della sua incoronazione. Ai giorni nostri è oramai riconosciuto simbolo di pan-celtismo. Non c’è da stupirsi se talvolta la musica di una piccola regione come la Bretagna, ha risuonato nel cuore in alcune persone come qualche cosa di intimamente familiare, indipendentemente da nazionalità o distanze chilometriche. Non si creano radici, sono esse che ci creano.

Vengono alla mente i versi del gallese Dylan Thomas, poeta-artigiano: “…si scambia nell’oscurità, un suono che salirà dalla terra verde fino ai cieli che risponderanno all’uomo sui gradini, al bambino vicino al letto…” (“Vision And Prayer” trad. Flavio Poltronieri).

Queste nuove arpe celtiche dal carattere acquatico, simbolizzano forse oggi l’entrata in un’altra era, l’aspetto positivo e unificatore dei Celti che sposano differenti culture in un universalismo concreto e non più solamente sognato, dove la tecnica sopprima ogni distanza temporale e geografica.

Andrea Seki

Andrea Seki dopo un inizio chitarristico in quel di Viterbo, venne attirato dalla musica barocca e rinascimentale, da strumenti quali liuto e dulcimer, ben presto però anche da quella classica dell’India del Nord di tradizione vedica, sitar e dilruba esraj.

L’arpa celtica arriverà con la scoperta della tradizione irlandese e soprattutto dopo un primo viaggio a Kemper a inizio anni ‘90 del secolo scorso. Da quell’incontro col Finistère, la Bretagna lo ghermirà del tutto, vi si stabilirà definitivamente, iscrivendosi alla Scuola Nazionale di Musica di Brest e perfezionando la ricerca della propria tecnica grazie agli incoraggiamenti di Myrdhin (anche nel corso di “Celtival” a Brocéliande e nell’ambito del Comitato Internazionale di Arpa Celtica a Dinan). Il proprio gruppo aperto “Elfic Circle” risale al 1997 (nel quale è compreso anche il gwerz di Yannig Skolan[1]) mentre il suo primo disco di arpa “Verso Ys” è registrato in Italia l’anno dopo. Quindi seguiranno soggiorni a Dublino, Dingle, l’incontro con Violaine Mayor, fondatrice a Plounéour-Ménez con la propria famiglia di arpisti, dell’associazione “Hent Telenn Breizh” (Il Volo dell’Arpa di Bretagna) e una messe di concerti tra Europa, India, Kashmir e Bangladesh. Particolarmente toccanti rimangono le esibizioni dal vivo all’interno di chiese, cappelle o siti culturali sia di origine etrusca che megalitica, luoghi naturali della nascita dei miti quali le leggendarie foreste di Huelgoat o Brocéliande, frammento di una più enorme e arcaica che occupava l’intero Argoat, nota per le avventure legate alla Tavola Rotonda.
L’infaticabile e poliedrico arpista italo-celtico ha lavorato anche come musicoterapista presso il centro medico di Soriano (Viterbo) dando vita a un programma di cura basato sulle tre musiche fondamentali dell’antica tradizione bardica (della gioia, della tristezza e del sonno). Personalmente gli sono grato inoltre per avere “risvegliato dal torpore” il misterioso Kristen Nikolas, bardo contemporaneo dimenticato anche perché del tutto estraneo alle dinamiche sociali di questo tempo.
Oltre al libro “L’Arpa Celtica del Sidhe” (2007) e a vari altri dischi in proprio, tra le collaborazioni folk di Andrea Seki vanno ricordate quelle col poeta bretone Bruno Geneste e col virtuoso flautista e suonatore di bansuri Fabrice de Graef. Senza dimenticare che assieme al gruppo dei Luar Na Lubre ha inciso “Canto De Andar” (Camiños Da Fin Da Terra, 2008) dove l’antica cantiga galiziano-portoghese si unisce alla tradizione bardico-atlantica.

I tempi cambiano, i tempi sono cambiati ma ciclicamente torna l’interceltìa aperta. L’arpa bardica porta in territori talvolta dall’apparenza sconosciuta o a lungo dimenticati; attraversa suggestioni interiori, tende a un percorso siderale in cui ancora vivano intelligenze, vibrazioni di suoni galattici, silenzi stellari. Le sue corde essenziali percorrono una via verso i misteri dell’ignoto, dimensioni spirituali, nostalgie animali, paradisi perduti, ritorni a terre e oceani insondabili, fino a condurre all’utopica celtica liberazione finale: Tir Na Nog (Paradiso dell’Eterna Giovinezza), Isola della Dea, Avalon, Atlantide. Insomma al sogno di un altro sé, all’incrocio tra illusione e realtà dove la magia della Creazione sia parola delle origini, Genesis. La futuribile New Age auspicata in questo disco, non rappresenta la vuota sigla che definì in passato una banale e modaiola sonorità ma vuole delineare piuttosto l’affacciarsi di un’Età Nuova per la vita.

L’immaginario rivolto a una generazione ancora a venire che dovrà pur ritrovare una strada tra le stelle: “Hanno perso la stella, una sera. Perché si perde la stella? Per averla, forse, troppo guardata…tracciarono sulla terra dei cerchi col compasso, fecero dei calcoli, si grattarono il mento ma la stella era fuggita come fugge un’idea. E quegli uomini, la cui anima era assetata di guida, piansero piantando tende di cotone…- pensiamo alla sete che non è la nostra, bisogna dare almeno da bere gli animali – e mentre reggevano il secchio dell’acqua per il manico, nell’umile cerchio di cielo dove bevevano i cammelli, la stella d’oro danzava in silenzio” (Edmond Rostand, 1868 – 1918, trad. Flavio Poltronieri).

La Memoria Perduta dell’Umanità

E’ un concept-album dai pochi e lunghi brani, non acustico ma privo di suoni elettronici, Seki utilizza loops ed effetti sonori creati esclusivamente dai pedali dell’arpa e inserisce in alcuni di essi, frammenti improvvisi dei temi tradizionali bretoni di un passato perennemente presente. E’ il suo, un affresco polifonico-orchestrale che unisce idealmente Sizun (nel Finistère dei Monts d’Arrée) dove è giunto e vive, la Tuscia (il viterbese ovvero l’antica Etruria dopo la fine del dominio etrusco) da dove proviene e la Sardegna, terra dei suoi antenati familiari paterni (la zia di Andrea, Giuseppina Sechi Mestica, è stata autrice di un Dizionario Italiano di Mitologia, tuttora reperibile). Il nome Sechi è proveniente dal clan dei Sequani, tribù celtica legata ai popoli del mare, lontani oppositori dell’Impero Romano lungo antichissime rotte atlantiche, che univano regioni ben oltre la memoria di popoli e culture e di cui evidentemente anche Andrea porta dentro eredità ancestrali. Così com’è altresì vero che tra Bretagna e Sardegna esistono svariate connessioni di cultura ritual-popolare. In “Lost Memory Of Humanity” appaiono tutte queste deviazioni nell’intreccio sonoro, l’architettura è elaborata a più livelli ma non perde unità d’insieme, nella rete dell’arpa elettro-acustica (sviluppata dal celebre liutaio-progettatore-musicista Marin Lhopiteau che dal 1988 opera a Kemper e oggi prossimo all’auto-pensionamento) staziona un teatro di fiori e acque che conducono al germogliare in superficie di una grande potenza evocatrice. Insieme alle sue corde cristalline che risvegliano incanti, vibrano tamburi, conchiglie, battiti cardiaci, viola, bodhran, violino, le percussioni dell’irlandese David Hopkins (anch’egli figlio adottivo di Bretagna dal 1992). E numerose voci, di volta in volta sperimentali, oniriche, eteree o narranti in tre differenti lingue (tra cui il bretone di Kristen Nikolas).

Ricordi della notte dei tempi, come un altro posto, un’altra volta, camminando mano nella mano con te, ricordi attraverso i secoli, i bardi cantavano questa storia, la memoria perduta dell’umanità che voglio cantarti, apri la tua mente, il tuo spirito al suono, alla luce e alla conoscenza, terre ancora senza paura, scogliere e rive denudate, deserti di pace atemporale, pensa che tu sei come l’acqua che cola verso le stelle della costellazione della Lira…” (Lost Memory of Humanity” – “Towards The Stars Of Lyra).

Il brano iniziale del disco “Song Of The Waves” gode dell’atmosfera di corrente di risacca (precisamente della baia di Douarnenez) quasi a riprendere su cicli delle onde, il filo delle parole dello scrittore-teologo-filosofo francese Jean-Yves Leloup: “L’esistenza è un mare colmo di onde…osserva come dalle profondità marine, innumerevoli salgono in superficie mentre il mare resta nascosto nelle onde…ascolta colui che giace al limite della tua aspirazione, chi si trova al suo principio…” (trad. Flavio Poltronieri). Durante la danza sacerdotale ritmica femminile di “Goddess Island” l’intenso flusso del moto ondoso oceanico permette all’arpa di veleggiare a lungo e senza confini, grazie anche ai bisbigli multipli della voce della nantese Lily Harvest, raggiunta da quella infantile, fatata e avvolgente della toscana Faith Federica Sciamanna e da quella sciamanica in sottofondo ad opera di Eleneh Flowering Light, romana degli Emirati Arabi Uniti. Nell’intrecciarsi di spirali progressiste e cristalline, tra strati sonori che fanno apparire in lontananza echi di festoù-noz, le voci femminili mescolate rappresentano i tre volti della dèa, antico culto celtico raffigurante giovinezza, maturità e vecchiaia. Nel momento centrale e lento del brano appare anche un frammento di una melodia tradizionale bretone (precisamente dell’Isola di Groix) e l’arpa pare ergersi come strumento libertario innalzante il vessillo di un sogno mitico di speranza. Seki la addentra tra onde multidimensionali, cosmiche e galattiche con l’augurio di essere portatrice di luci e di voci che oltrepassino le parole, donando suoni in opposizione alle avanzanti “intelligenze artificiali”. Le sue corde sanno, dicono e dimostrano l’esistenza di un’altra via, tesa ad armoniosi e filosofici tragitti che, attraverso grandi cammini di terre di spiritualità come l’India, conducano alla gioia di una vita dove il mondo possieda ancora anima e ricchezza creatrice globale “…tornerai a sorridere, tornerò alla pace, a suonare per te l’arpa dell’ultima foresta…torneremo alle onde dell’oceano e danzeremo la luce per sempre nei flussi di Dannan…” (The Harp Of The Lost Forest). Anche Charles Baudelaire scriveva nell’ultima riga dell’ultima poesia de I Fiori Del Male “…in fondo all’Ignoto per trovare il nuovo” (Il Viaggio). La Foresta che fa da sfondo a questa ballata quantica è proprio quella sopracitata d’Huelgoat (Bosco Alto), detta anche “Fontaineblau Breton”, residenza di Artù e di fate, situata nel Parco Naturale d’Armorica, celebre soprattutto per i suoi ammassi rocciosi caotici che hanno ispirato un gran numero di racconti. La leggenda vuole siano opera del gigante Gargantua che, essendo di passaggio e avendo chiesto ospitalità agli abitanti della foresta, ricevette appena una misera zuppa di grano nero per placare la sua enorme fame e quindi si infuriò, gettando rabbiosamente in giro a casaccio tutte le pietre che trovava lungo il suo cammino. Grazie all’utilizzo multimodale delle scale musicali e su onde di evocazioni atlantidee, il disco richiama talvolta ritmi di laridée e visioni ipnotiche di incantamento, saluta un mondo che scompare nella speranza romantico-leggendaria di risvegliarsi in un tempo nuovo. Le frequenze esoterico-positive di liberazione invitano all’uscita dal sistema di controllo mentale.

Le arpe sono strumenti misteriosamente assai capaci di far viaggiare, imbrigliando con la potenza visionaria e trascendente dei loro suoni, movimenti e forze telluriche e psichiche, desideri intensi di tenebra e luce all’interno del circuito emotivo. Le loro corde evocano un mondo di immagini poetiche e di parole pittoriche, un mondo utopico, unico, familiare e universale che non può essere quello di una fine ma di un nuovo inizio.

Condizioni di fertilità e felicità a cui l’umanità occidentale contemporanea sembra aver oramai quasi del tutto rinunciato..

Ninnananna per la fine di un tempo, ninnananna per la fine di un mondo, svaniremo in nuvole di luce, scompariremo nella sabbia del mare…non mi sento perso nell’oceano dentro di me, stavamo scappando dall’illusione della realtà…ti ho già incontrato molto tempo fa…vedo la maschera del silenzio…non c’è più tempo per nascondersi…” (Lullaby For The End Of Times).

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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