Isole di Montagna: le due questioni cimbre

Ai tempi dell’Impero Romano tra la Germania del sud e la Danimarca si estendeva la Chersonesus Cimbrica, penisola di torbiere e basse colline che divideva il Mar Baltico da quello del Nord. Durante il V secolo venne occupata dal popolo degli Juti, prendendo da loro il nome di Jutland (Jütland in tedesco, Jylland in danese e Giuzia in italiano). Il fiume Eider separava quelle terre dal resto d’Europa; sembra che i nuovi arrivati e un epocale e devastante maremoto, abbiano convinto quelle genti cimbre ad andarsene per intraprendere un avventuroso tragitto che li porterà parecchio lontano.

La migrazione dei Cimbri

La storia di quel viaggio cominciato intorno al 120 a. C. fu una vera e propria epopea. Inizialmente si diressero verso il Danubio ma il maestoso fiume che unisce Occidente e Oriente non portò loro grande fortuna in quanto, arrivati in Boemia furono cacciati via prima dai Boi, padroni della selva Ercinia, poi dai Volci, popolo celtico originario delle zone e infine pure dai Taurisci, altri celtici emigrati dalla Gallia nel Norico settentrionale (che oggi corrisponderebbe grossomodo ad Austria centrale+ Baviera+Slovenia+arco alpino italiano nord-orientale). I Cimbri allora si diressero verso la Pannonia e dopo ulteriori peripezie e scontri, furono stavolta i Romani a intimar loro di andarsene e di farlo al più presto o per loro, sarebbero stati guai seri. Raggiunsero quindi la regione tedesca del Meno, il maggiore affluente destro del Reno, dove si congiunsero con i Teutoni, un popolo che viveva originariamente come loro, nella penisola dello Jutland, anche se più a sud.

Dall’anno 113 all’anno 109 i due popoli rimasero pacificamente insieme ma tranquilli evidentemente non erano, se decisero di riprendere il cammino insieme, animati da un sotterraneo e insopprimibile spirito avventuroso. Si unirono per strada agli Elvezi e, dopo aver ancora inutilmente chiesto ai Romani delle terre da abitare, li affrontarono a viso aperto, sconfiggendo il console Silano nei pressi del Rodano. Nel 105 la loro unione militare, con l’ulteriore aggiunta della tribù degli Ambroni, vinse ancora contro i Romani la Battaglia di Arausio; quelle vittorie si dovettero in grande misura alla ferocia e forza spaventosa dei Teutoni che indussero i Romani a parlare di “furor teutonicus” (furore teutonico).

Ma poi inspiegabilmente gli eserciti coalizzati decisero di separarsi e mentre i Teutoni risalirono la Gallia da sud a nord, i Cimbri si diressero verso i Pirenei, disperdendosi infine in Spagna. Per un po’ non se ne seppe nulla ma improvvisamente nell’anno 103, ricomparvero facendo il percorso inverso, seguirono la costa della Linguadoca con direzione Italia e lungo il cammino, altrettanto “misteriosamente”, si riunirono ai Teutoni.

Fu in quel momento che insieme partorirono l’idea folle di sorprendere i Romani alle spalle valicando le Alpi, sulle orme di quel che aveva fatto il grande ed eroico condottiero cartaginese Annibale. Ma i Teutoni persero tempo a far razzie e bisboccia lungo il percorso e finirono per ritrovarsi inaspettatamente faccia a faccia con l’odiato nemico romano che li sconfisse. La feroce “Battaglia di Pourrières” divenne memorabile, al motto de “l’acqua bisogna comprarla col sangue”. I Cimbri nel frattempo scendevano diligentemente, come previsto dal piano, le Alpi settentrionali lungo il corso dell’Adige e travolsero i Romani puntando dritto su Roma, rimasta indifesa. Ingenuamente però ad un certo punto si fermano ad aspettare l’arrivo degli alleati teutonici, ignorandone la sconfitta; arrivarono invece i Romani, che condotti da Mario, nei pressi di Vercelli[1] il 3 luglio dell’anno 101, li massacrarono.

.La battaglia dei Campi Raudii Lastra derivata da un opera di Decamps incisa da Cucinotta -Parigi 1864

Quelli di loro che sopravvissero divennero schiavi dell’Impero Romano e come tali trattati. Non che loro fossero da meno: durante ogni battaglia i Cimbri erano sempre accompagnati dalle mogli che a loro volta erano accompagnate da sacerdotesse-profetesse, le quali coronavano di fiori le teste dei prigionieri e poi li sgozzavano pubblicamente senza pietà.

Cimbro o Celta?

I Cimbri (come anche i Teutoni) combattevano armati secondo l’uso gallico, adoravano la Madre degli Dei e la figura del cinghiale era il loro emblema (animale rappresentato sulle monete galliche, come sulle incisioni raffigurate sul loro adorato “Calderone Sacro di Gundestrup”, vero monumento della religione druidica). Quelle sacerdotesse assomigliavano molto alle furie guerriere sulle stesse monete, come pure alla divinità irlandese Mórrígan, associata a guerra, morte e destino.

Ma innumerevoli sono le similitudini con il mondo di Keltia, la parola stessa “Cimbri” proviene dalla lingua irlandese antica “cimb” (tributo, riscatto), “cimbid” (prigioniero). I condottieri hanno tutti nomi celtici: Teutoboduo ha per radice “teut” unita a “budd” (vittoria) e “bodu” (cornacchia), Gaesorige contiene “gaesa” (lancia) arma con la quale era un guerriero imbattibile, Lugio deriva dalla divinità celtica “Lúg” (o Lugh), Boiorige contiene “Boi” dal nome di un’altra popolazione celtica ben conosciuta.

Non è storicamente sicuro ma è assai probabile che parlassero una lingua celtica, chiamavano infatti “Morimaruse” il Mar Baltico (Mar Morto) nel quale si riconoscono chiaramente i termini bretoni “mor” (mare) e “maro” (morto). Anche i famigerati Teutoni hanno il nome derivante dalla radice irlandese “tuatha”, ovvero “popolo” o “razza” e da quella bretone “ty” (casa). I Gallesi al tempo delle invasioni sassoni scelsero di chiamarsi “Cymry” da cui viene “Cymru” (Galles) e “cymraeg” (lingua gallese). “Cymry” deriva dal vocabolo celtico antico “Combrog” (gente dello stesso paese) mentre “bro” (“paese” in bretone) proveniente dall’irlandese “combraic” (gallese).

L’ambra gialla che caratterizzava il loro commercio tra Estonia ed Elba, proveniva dall’isola dei Meli, ovvero Abalum (Osel) sulla costa orientale del Baltico. In quell’isola c’era un villaggio, Aboul e la parola “abal” è identica a “aval” (mela). Quel succino, loro lo chiamavano “gless” che è un’altra parola celtica molto simile al bretone “gless” (rugiada); lo raccoglievano dall’acqua del mare e le note proprietà elettriche che lo infiammano con facilità, lo rendevano “fiamma ardente”. Così la fantasia popolare credeva di veder comparire dalla spuma dell’onda, il dio Sole in “forme divine e con la testa coronata di raggi”. “Lo splendente” dio gallico Belenos (l’equivalente di quello greco Apollo) è poi colui a cui vengono rivolti anche i grandi falò irlandesi nella notte di Beltaine (1 Maggio). Il suo nome viene dal latino “pomus” ovvero l’inglese “apple”, il tedesco “apfel”, il gallese “aval”, in pratica la “mela” da cui derivano tutti i termini che indicavano l’Isola Beata dei Celti, nella quale Fata Morgana trasportò Re Artù, ferito dopo la battaglia di Camlann. Quindi il legame tra ambra e sole equivale a quello tra sole e mela, frutto conosciuto per essere quello della Perfetta Conoscenza, dell’albero del bene e del male nel Paradiso Terrestre. L’isola di Abalum chiaramente non ricorda perciò solamente nel nome quella di Avalon, l’isola leggendaria dell’aldilà che per alcuni è l’Ile Aval (o Daval) in Bretagna, per altri sul St. Michael’s Mount in Cornovaglia, per altri ancora è la Sicilia (c’è poi chi dice essere Burgh-by-Sands nel Cumberland, chi ritiene sia Glastonbury…)

Per tutto il corso dell’antichità i Cimbri sono stati confusi con i Celti a causa dei loro usi e costumi gallici e soprattutto per la lingua che utilizzavano. Ma nei territori del mito e tra le maschere dei misteri, ogni certezza appare nebulosa e tale è destinata a rimanere, non si potrà trovare verità in mezzo alle mille leggende mitiche e misteriose. Non basteranno creatività, intelligenza, intuito o fantasia degli uomini, né torneranno in sogno, popoli megalitici divinizzati a svelare arcani. E’ una certezza però che tutti i territori continentali occupati dai Celti siano disseminati di quegli imponenti e misteriosi pietroni verticali[2] di cui non si conosce neppure la provenienza. Come neanche da quale punto andrebbero osservati per capirne il significato. Chissà se ne sapevano di più i Celti, dato che erano stati proprio loro a soppiantare i popoli precedenti che li avevano eretti. I Celti furono quelli che riunirono e amalgamarono quelle tribù sparpagliate, inizialmente schiavizzandole. Non si potrebbe neppure parlare di una vera e propria “razza celtica”, visto che i Celti erano assoluta minoranza e furono la loro civiltà, lingua e religione a imporsi, tenendo unite le genti e “celtizzando” intere popolazioni.

Ma tant’è: oggi si dice “musica celtica” e tutti sembrano capire di cosa si sta parlando, eppure nessuno ha mai saputo o udito quale fosse la musica dei Celti. Forse non è nemmeno mai esistita. Ma i miti sono “roba forte” e, potenti come gli dèi, possono far nascere dal nulla ben più che musica e suoni! Gli unici a conoscere come sono andate le cose veramente e quale sia il loro senso, sono quei monumentali pietroni che, quando li guardi, muti e immobili paiono tutte le volte, come in un sogno mistico, assumere sembianze eroiche e divine.

I Cimbri della Lessinia

Dalle mie parti, esiste una comunità cimbra, un tempo diffusa anche nella Lessinia veronese e che oggi vive nel villaggio di Giazza, un altro insediamento si trova nel paesino trentino di Luserna, nella parte meridionale tra Adige e Brenta, poi un terzo sull’Altopiano di Asiago, formato dai “sette comuni”: Asiago, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Rotzo e Roana con annesso anche lo sparuto gruppo di abitanti della sua frazione a Mezzaselva. In tutti questi luoghi campeggiano scritte bilingue sui cartelli o sui prodotti locali delle botteghe, quasi ovunque ci sono persone in grado di utilizzare ancora oggi la parlata locale. Si tratta di piccoli enclaves cimbri ancora fortunosamente vivi e vegeti.

Giazza (758 metri di altezza) è situata all’estremità nord-orientale della provincia di Verona, dove confluiscono la Val Fraselle e la Valle di Revolto, all’incrociarsi dei due omonimi torrenti, ai piedi dei Monti del Carega nelle Piccole Dolomiti. Queste popolazioni portano il medesimo nome e c’è quindi chi sostiene si tratti proprio di discendenti di quei Cimbri originari scandinavi, fuggiti dalla loro lontana penisola nord-europea. Ma così non è. Un tempo questa comunità cimbra occupava un’area montana a Roveré Veronese, su autorizzazione del vescovo di Verona che era il proprietario del sito. Il prelato aveva anche concesso il “diritto di giuspatronato” che consisteva nella possibilità di proporre a lui un sacerdote che fosse loro gradito, da individuare tra quelli di lingua tedesca.

Il mondo leggendario dei Cimbri

I Cimbri erano molto religiosi, organizzavano spesso rosari, invocazioni, litanie, rogazioni, processioni campestri allo scopo di ottenere buoni raccolti e nelle quali venivano pronunciate formule propiziatorie come “a fulgore et tempestate” dove vecchiette sdentate in falsetto e con voce tremolante, imitavano il picchiettare dei chicchi di grandine sul terreno [3]. Queste genti costruivano capitelli e croci e “colonéte” (steli) ovunque, lungo le strade, così come nei prati. E soprattutto erano molto superstiziose[4]: credevano nell’esistenza di “striòssi” (stregoni), nelle bianche, splendenti e vuote “sealagan laute” (o “genti beate”), negli “orchi” che abitavano i “covoli” (antri, grotte) e potevano presentarsi sotto forma di lupo, pecora, anitra, scrofa, bastone, fiamma, grandine, vento, fanciulla, vecchio rattrappito, bambino, gigante, nano, folletto, rapace, quercia.

Credevano inoltre nell’esistenza delle ‘‘guandàne’’, delle “strie” che giravano la schiena all’altare in segno di disprezzo, delle “anguane” (dette anche “bele butèle”), femmine bellissime vestite sempre di nero che aiutavano le donne del paese a fare il bucato ma guai a presentare capi di colore nero. E ancora nei due tipi di misteriose “fade” che, a seconda dei luoghi, erano di natura e costituzione fisica assai differente. Potevano presentarsi come creature buone oppure perfide e dispettose, erano in grado di prendere sembianze animali, di incantare o far parlare buoi e mucche. Si nutrivano di carne d’uomo e di notte si riunivano in banchetti e ballavano al suono di gigli e gelsomini; di giorno invece vestivano eleganti e lunghe gonne di seta, neri grembiuli ricamati, cuffie, fazzoletti di pizzo, mantelli scuri e ciabatte di velluto. Altre “fade” invece erano piccole, robuste e gran brutte a vedersi, gli zoccoli ai piedi come cavalli, le mani pelose come scimmie, di giorno spesso si nascondevano sotto le pietre degli orti e se per caso qualcuno alzava la pietra, trovava un rospo o un serpente. Al sabato urlavano: “Gh’è bràghe sui scani?” (Ci sono uomini?) Prima del Concilio di Trento vivevano libere in mezzo alla popolazione dei paesi ma dopo essere state maledette, furono costrette a rimanere unicamente nelle caverne e qualcuno sostiene che i loro spiriti siano rimasti ancora lì. Dalla disperazione si attaccavano alle sporgenze interne delle pareti rocciose, lasciando delle impronte ancor oggi visibili.

I Cimbri credevano pure nell’esistenza del mitico, terribile serpente ipnotizzatore “Basilisco”[5] che si narrava fosse nato dall’incrocio tra una biscia e una gallina. Nessuno riuscì mai a catturarne un esemplare e non avendolo mai visto la fantasia popolare si sbizzarriva a seconda delle località: a Gorgusello veniva descritto come una serpe non molto lunga e con un “cornéto” (piccolo corno) sulla fronte, alle Sponde, come un uccello che spiccava piccoli voli e mordeva a morte, ai Séri era fornito di una cresta rossa, due ali da gallina ma perfettamente capace di spiccare il volo, a Giazza aveva la testa di gatto e il collo ricoperto da scaglie e via andare…il ricercatore di folklore veronese Giuseppe Rama ne ha studiato le sembianze storiche e scientifiche, scoprendo che il suo nome proviene dal greco βασιλισκός (basiliscòs) e da βασιλήυς (basilèus) ed equivale a “piccolo re”. La Bibbia lo cita come “tsepha”, simbolo del male e re dei serpenti, l’iconografia cristiana lo pone vicino a San Giorgio e a Santa Margherita d’Antiochia sotto le sembianze di drago. Quasi fosse uno scherzo del caso, il Basilisco esiste davvero: è un rettile verde olivastro dell’America tropicale, lungo dai cinquanta agli ottanta centimetri, il maschio ha la testa recante una cresta triangolare e un’altra cresta lungo tutto il dorso, la coda è lunga ma l’animaletto in questione è…completamente innocuo.

I Tredici Comuni

La comunità cimbra era giunta qui dall’alta Vallata del Chiampo nel 1287, spargendosi in tutta la Lessinia e aveva in seguito formato Tredici Comuni: Roveré, Erbezzo, Boscochiesanuova, Cerro, Velo, Valdiporro, Tavernole, Camposilvano, San Mauro di Saline, Azzarinio, Badia Calavena, San Bortolo e Selva di Progno. Le “contrade” abitative erano state costruite seguendo organicamente il terreno con le sue inclinazioni e pendii. In Lessinia occidentale le case e i tetti erano tutti in pietra, in quella centrale e orientale, la muratura era in pietra calcarea o mescolata con basaltiche, i tetti in coppo con gronde e muri laterali coperti da lastroni. I Cimbri invece utilizzavano sempre coperture spioventi con accentuata inclinazione: le fattezze tipiche insomma delle architetture nordiche cuspidate (alcune risalenti al ‘400 sono visibili ancora oggi). Il loro nucleo sociale principale era inizialmente Roveré ma poi divenne Velo nell’anno 1461, quindi infine Badia Calavena nel 1797. Per legge erano obbligati ad occuparsi della difesa dei confini col Trentino, ad acquistare il sale unicamente dal magazzino erariale di Verona e a mettere a disposizione tutti gli uomini validi nel caso che lo stato scaligero fosse stato militarmente attaccato.

Cimbri del nord Italia (Bavaro-Tirolesi)

Come nel caso degli omonimi nordici oggi rimane poco di questo antichissimo popolo. I “Cimbri del nord Italia”, abili carpentieri, avevano preso il nome da “zimberer”, antico vocabolo tedesco dotto, con cui venivano individuati i “boscaioli”. Le fitte foreste da disboscare del nord Italia superavano di gran lunga le possibilità delle braccia locali e da qui l’arrivo in vari luoghi di tutti quei coloni di boscaioli-pastori tedeschi.

Sembra che i loro antenati fossero partiti da un punto geograficamente assai più prossimo, tra Baviera, Tirolo e Svevia, raggiunti più tardi da altri emigranti da Voralberg e dall’Alto Adige. Pare infine che la loro lingua (che parlano in tre dialetti poco differenti tra loro) derivi dal tedesco meridionale del XII secolo. [6]

Alcuni studi hanno evidenziato che questi stanziamenti furono facilitati dall’abazia benedettina tedesca di Benediktbeuern e da quella veronese di Santa Maria in Organo. La città scaligera a quel tempo era la principale base tedesca in Italia e capitale nord-orientale della “marca di Verona” del Regnum Italicorum (parte del Sacro Romano Impero).

Durante il Cinquecento l’abbondanza di matrimoni misti con le donne locali ha portato lentamente alla dissoluzione della comunità cimbra e al ridursi considerevolmente dell’uso della lingua. Che incorpora vocaboli quali “bol” (amore), lem (vita), vich (animale), earde (terra), bazzar (acqua), liacht (luce), må (luna), loap (foglia), bolkhnen (nuvola), takh (alba), rakh (muschio), stèrn (stella)…si tratta del “tauc”, antico bavaro-tirolese dell’anno 1000, un “alt hoch deutsch”, in cui si trovano però alcuni residui di gotico-longobardo e elementi del “mittel hoch deutsch” e del “old nordish”.

La loro situazione numerica è ridotta ma quell’antica parlata di Bassa Germania viene ancora insegnata presso il Museo dei Cimbri di Giazza (Ljetzan) dove si tiene un corso serale di “Cimbro Vivo” (Tzimbar Lentak). Così come pure nelle scuola elementari del comune di Selva di Progno, sotto la voce: “cultura cimbra”. Oltre a quella poetica, fortunatamente anche la tradizione musicale orale ha lasciato piccole-grandi eredità che ogni tanto rivivono in testimonianze estemporanee ma di grande significato. Quattro anni fa avevo scritto il trasognante “Lessinia: folk cimbro degli anni 2000”[7]

Emanuele Zanfretta, voce Elisa Cipriani in Binte
Binte con la Big Band Ritmo-Sinfonica “Città di Verona” diretta da Marco Pasetto e Elisa Cipriani
Il Museo di Tambre: i Cimbri del Cansiglio
Istituto di Cultura Cimbra e i Balt Hütttar
Balt Hütttar- Tantzasto met Miar
Alla scoperta dei segreti dei boschi del Cansiglio con Slow Tour

Binte

Dal canto Binte, …”una fanciulla delle Genti Beate andò in sposa ad un uomo di Giazza; la madre della fanciulla le diede per dote una matassa di filo e le disse: “lega ma non dire mai dove sia legato il capo del filo”. Senonché avendolo essa detto al marito fu perduta. Vagò raminga, tornò per pettinare i figliuoli e non fu più veduta”… Così raccontano le antiche leggende che ancora riecheggiano per le anguste valli di Giazza.
Testo raccolto dai fratelli Cipolla di Giazza nel 1883, musiche di EmA Emanuele Zanfretta.

“I gi-der an stre, binte, ma kud mai benje ist iz hort”

Con Vito Massalongo, presidente del Curatorium Cimbricum Veronense e Marta Merzari che canta una ninnananna scritta da Piero Piazzola. E con Ezio Bonomi e le leggende cimbre. Massalongo cita anche la Festa del Fuoco del solstizio d’estate
Docufilm “Io sono Cimbro, Io parlo Cimbro” scritto e diretto dal regista Mauro Vittorio Quattrina.

La festa del fuoco a Giazza: Waur Ljetzan

Perfino in una realtà così circoscritta e minoritaria come quella dei Sette Comuni è rintracciabile una rappresentanza di canzone d’autore contemporanea in “taucias garèida”(lingua cimbra) di provenienza dalla millenaria civiltà dell’Altopiano. Minuscola traccia che descrive povertà e dignità, raccontando dell’amore per la natura e per la vita agreste, delle lentezze e delle fatiche dei lavori stagionali, della religiosità di un popolo che ha attraversato secoli. Così fanno anche le parole misteriose e fascinose di filastrocche, preghiere, ninne nanne intonate da cori di piccole voci bianche, grazie alla preziosa ricerca linguistica culturale e musicale del Curatorium Cimbricum Veronese[8]. Storie, racconti, memorie e favole giunte a oggi dalle ataviche stalle (i “filò”) della Lessinia, a testimoniare una volta ancora con il canto, come non sia l’uomo a salvare la tradizione ma la tradizione a salvare la vita all’uomo.

Anche il tema dei dodici mesi di “gucciniana” memoria venne celebrato ben prima nel tempo dal poeta cimbro di Giazza, Eligio Faggioni[9], con altri nomi (Hornach, Febrar, Marso, Roasan, Madjo, Sunjo, Ludjo…) ma identica forza poetica: “Gennaio viene per primo, sano e freddo, portando neve e imbiancando tutto, il primo giorno la gente si stringe la mano e accendono la pipa adoperando un tizzone…Febbraio è corto più di tutti, quattro settimane passano presto, con sonagli e corni brucia la pira, tornano i codirossi davanti a casa…Marzo più lungo si fa vedere, spazzando via la neve sui monti e sulle strade, variopinte le forre, gialli e azzurri i fiori che sulle labbra suonano quando soffiano…e fanno vedere Aprile in queste dolci valli, alti i falchi si librano, rumoreggiano i torrenti, la domenica viene gente forestiera e legge sui muri cosa è scritto in cimbro, si guardano negli occhi e dicono – cosa è successo oggi?…”

L’ultima migrazione cimbra, si spostò nel 1707 dal paese di Roana alla Foresta del Cansiglio, vasto altopiano tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, a cavallo tra le provincie di Belluno, Treviso e Pordenone. In quel tempo l’arrivo di Napoleone Bonaparte aveva causato la perdita delle autonomie che li caratterizzava fin dal Medioevo, per facilitarne l’insediamento infatti erano da sempre stati esentati dal pagare vari dazi. Ora il potente condottiero non ammetteva più questo loro antico privilegio.

Tristemente però oggi i villaggi cimbri di Pian del Cansiglio non sono che pochi ruderi e saltuariamente abitati: Vallorch, Le Rotte, Val Bona, Pian dei Lovi, Canaie Vecio, Pian Canaie, Campon, Pian Osteria, I Pich. Assai difficilmente oramai potrà esistere una qualche rinascita per questa “Cenerentola linguistica” stretta nella morsa tra globalizzazione ed estinzione.

[1] Quella che è stata definita la cultura megalitica (della Grande pietra)  dell’Europa è esistita dal 5000 al 1000 ac (tardo Neolitico e prima Età del Bronzo).
Sebbene sia ancora un mistero non ancora compreso l’architettura del neolitico presuppone ragionevolmente l’esistenza di viaggiatori (non giunti dallo spazio ma dal mare) che si prodigarono a diffondere tra le comunità di raccoglitori-cacciatori le pratiche agronomiche e le conoscenze di una civiltà andata semidistrutta a causa di un evento catastrofico.
https://ontanomagico.altervista.org/megalitismo.html
[2] “Il toponimo di Vercelli deriva molto probabilmente dall’antico Wehr Celt (Rocca dei Celti) ma le testimonianze e i reperti celtici nella zona sono molto scarsi. Nel Museo Leone è conservata una stele bilingue in latino e celtico, usata per delimitare un campo di culto. La battaglia dei Campi Raudii (detta di Vercelli) molto probabilmente venne combattuta in zona vercellese-lomellina. Il vercellese Carlo Dionisotti, che scrive alla fine dell’Ottocento la colloca tra le possibili ubicazioni anche a Borgo Vercelli e ad Albano Vercellese (sede della Riserva naturale delle Lame del Sesia) ma numerose sono le ipotesi che si trovasse nei pressi di Lomello o Robbio” [Cattia Salto]
https://vivoinlomellina.wordpress.com/2020/08/08/campi-raudii-va-bene-ma-dove-esattamente/
[3] Schiarazula marazula, tempestari e rogazioni
[4] https://cimbernauti.wordpress.com/2017/09/12/striossi-incantesimi-e-stregonerie-nel-mondo-cimbro/
[5] El Bés Galì [il Basilisco]
[6] un dialetto bavarese
[7] https://www.blogfoolk.com/2019/06/lessinia-folk-cimbro-degli-anni-2000.html
[8] Curatorium Cimbricum Veronese
https://www.facebook.com/groups/93103991803/?locale=it_IT
https://www.visitlessinia.eu/it/la-lessinia/conoscerelalessinia/Cimbri/
dalla  rivista Cimbri/Tzimbar. Vita e cultura delle comunità cimbre, n. 52, 2015 Aulo Crisma andò nel 1947 a Giazza come maestro e vi rimase una decina d’anni, deceduto nel dicembre 2020
https://www.inchiestaonline.it/ambiente/aulo-crisma-dieci-anni-con-i-cimbri1/
[9] Eligio Faggioni, IZ JAR KAN LJETZAN. L’ANNO A GIAZZA, 1979 Casa editrice: TAUCIAZ GASINGA

Nel video Vito Massalongo cita Bruno Schweizer membro del famigerato Ahnenerbe

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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