Il Cigno Nero

cigno nero

Adesso che il mondo intero è precipitato all’interno della “Teoria del Cigno Nero” molti hanno iniziato ad apprezzare gioie semplici e naturali come il calore del sole, i venti delle montagne, la freschezza delle piogge, il brontolio dei ruscelli, l’aria che misura i ritmi del respiro.
E’ prerogativa delle canzoni l’interpretazione lirica e melodica dell’esistenza.
Attraverso l’immaginario riescono a fissare paesaggi e personaggi innalzandoli e trasformando in straordinarie delle storie che probabilmente furono semplicemente normali.

Nei canti popolari il riferire una notizia reale subito all’inizio equivale alla promessa che tutto ciò che seguirà non sarà altro che pura verità e se così non fosse il sacro fuoco delle canzoni inghiottirebbe il narratore all’istante. In mezzo alle loro righe si può celare un punto spirituale dove si manifesta il magico patto che unisce l’essere vivente alla terra che lo ospita. E’ in quel religioso legame che la simbologia diviene rappresentazione sia astratta che fisica insieme.

Le canzoni portano a viaggiare e in ogni viaggio un processo lento di riconoscimento e di ricostruzione inizia sempre, sconosciute stratificazioni culturali rivivono, senza l’intenzione di impartire insegnamenti, quanto piuttosto di raccontare o confidare. Ci sono luoghi attraversati da soffi epici che descrivono con la forza, il fascino, la ricchezza che solamente gli elementi naturali sanno possedere. Luoghi e realtà senz’altro topografiche ma che si presentano agli occhi di chi guarda come valori universali fuori da tempo e spazio. Luoghi che creano e donano meraviglie di forme, colori, suoni e tenerezze e che sono orchestrati alla perfezione da un qualche cosa che rimane avvolto dall’inspiegabile.

Regioni antiche dove il mistero si colloca esattamente al centro dell’immaginazione. E per ogni luogo visitato sulla terra esiste un’antica canzone popolare a disordinare un presente condizionato e organizzato, ad anticipare un futuro già pianificato.

In un’epoca fausta per la folk-music, che oggi purtroppo non esiste più, al St. Patrick Festival di Verona nella primavera del 1999 si alternarono sei gruppi tra cui Lia Luachra, quattro giovani irlandesi emergenti che venivano in Italia per la prima volta. Li avevo sentiti nominare in quanto avevano vinto l’anno precedente il concorso La Bolee des Korrigans a Lorient e avevano partecipato alla Celtic Connection di Glasgow e al Festival Interceltico di Bretagna. Ad un certo punto, in mezzo a vecchi reel e slow-air, Jon Hicks, il loro chitarrista, presentò una inedita canzone autorale che aveva da poco composta, dicendo “Vorrei suonare un canto che descrive la vita in Irlanda” e iniziò The Older Lands. Quel gruppo non ebbe poi una gran carriera musicale ma per me bastò quell’acustica canzone con l’ardente accompagnamento dalla rossa violinista Tricia Hutton.

Lia Luachra

Mentre attraversavo le regioni più antiche
– Non mi mancano le parole adesso –
Ho sentito il lavoro di molte mani selvagge
Come stenderci a terra
Una vecchia voce dirmi:
“Questo è l’unico modo di essere”

Perché non posso affrontarlo
Con una mente aperta e gli occhi aperti?
Perché dobbiamo fingere?
Oh vita sii gentile, oh vita sii gentile

E spero sia arrivato il mio momento
Signore, come corro
All’inseguimento di ombre nella brezza
E’ per questo che parto sempre

(comp. Jon Hicks – traduzione di Flavio Poltronieri)

E sono sempre le stesse storie dalla notte dei tempi, storie dell’impossibile, dell’utopico che hanno portato l’oscuro mondo tradizionale fino al contemporaneità. Ad un punto di non ritorno fra ciò che fu e ciò che è. A fronte di una realtà deludente, c’è sempre, per fortuna, qualcuno che canta di immagini mai viste o di improbabili incontri, chi sta insomma, come diceva Guccini, “a chiacchierare di nubi”

La “Teoria del Cigno Nero”

La “Teoria del Cigno Nero” è la descrizione di un imprevisto dall’enorme impatto e dei suoi effetti, elaborata dall’accademico libanese Nassim Nicholas Taleb. Prende il nome dalla convinzione che i cigni neri non esistessero. Fino al 1697 quando il Capitano di Marina Olandese ed esploratore Willem de Vlamingh non li avvistò numerosi sulle acque dei fiumi australiani. Il Cigno Nero, quasi fosse una dannata premonizione è rimasto il titolo dell’ultimo capolavoro del sommo chitarrista scozzese, Bert Jansch, a rappresentazione dei tempi bui della vita attuale. Sul grande fiume dell’immaginario questo uccello, come cantava Jansch, “non ha mai bisogno di riposare e non smette mai di dire addio”. Proprio come l’Ankou in Bretagna, obbliga a portare con se, per quanto difficile, tutta l’accettazione e la riconciliazione umana possibile.

Bert Jansch

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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