Richard THOMPSON: Ship to Shore

Ship To Shore, l’ultimo colpo dell’infallibile cantautore che non sbagliò mai un disco

Sulla copertina del disco “Ship to Shore” (2024) Richard Thompson sembra l’attonito nostromo di una qualche pubblicità, con tanto di onde dietro e gabbiani sulle spalle, anche se è stato registrato bucolicamente in uno studio che un tempo era stato un vecchio fienile e le caprette pascolavano ancora sul prato al di là dei vetri.

Ship to shore 2024: full album

Come già accaduto per i precedenti ultimi, Richard Thompson ha raccolto nell’area circostante, per ogni canzone un oggetto con intento di farne un talismano: una pigna, una foglia di catalpa, un trifoglio, un dado a sei facce. Ha anche acquistato al mercato delle pulci di Woodstock, un vecchio cowboy giocattolo, una saliera, un piccolo faraone mancante di una parte, tutti poi finiti nel fuoco al termine delle registrazioni, per purificare la mente in attesa… del prossimo disco (già interamente composto, sempre durante l’inattivo periodo del Covid).

IL MANOSCRITTO DEL COMANDANTE TREVELYAN
Il titolo ripete quello di un capitolo del manoscritto autobiografico inedito del comandante M. J. Trevelyan, che Richard aveva da poco finito di leggere. Ogni canzone incorpora numerosi punti di contatto con la vita che costui condusse sia a terra che su un peschereccio nel mar di Cornovaglia. Esiste perciò un secondo piano di lettura dei testi riferito alle vicende di Trevelyan che si svolsero nel periodo della seconda guerra mondiale.

Come al solito invece che andare da un analista, scrivere canzoni è un’ottima terapia, una catarsi dal risultato pressoché garantito!! Il disco precedente “13 Rivers” (2018) era contemporaneo alla separazione di Thompson dalle seconda moglie Nancy, questo è risultato del confinamento pandemico ma anche celebrazione del nuovo matrimonio con la cantautrice inglese Zara Phillips.

Ship to Shore minuto per minuto

“Freeze” primo brano del disco, spande subito profumo di giga irlandese, il sapore celtico si mescola con un tambureggiante desert blues che narra delle titubanze di un disilluso di mezza età. Giorni avanzano senza sogni, speranze o schemi, lui si sente gelare, qualcosa è cambiato, la vita ora gli va stretta, non si muove né avanti né indietro. Probabilmente il protagonista è incapace di mettere la parola “fine”, resta in attesa di una brezza di vento amico che gli dia la spinta giusta.

Trevelyan era un capitano modello in mare aperto, ma uomo assai ambiguo e incerto quand’era a terra.

La dolente e tormentata “The Fear Never Leaves You” è ingrossata dal dolore di un reduce di guerra, tematica cara al sempre compianto cantautore sovietico Vladimir Vysotsky. La canzone, seppur composta in precedenza, risulta ancor più sinistra nelle indifferenze e nelle ipocrisie di questo periodo di guerre.

Un soldato è incapace di darsi pace per ciò che ha dovuto vedere, la musica opposta simboleggia gli squali che possono nascondersi tra le onde

“la paura non ti lascia mai solo,
dieci anni, venti o più,
lo stesso mostro entra dalla porta,
se tu sognassi i sogni che sogno io,
non dormiresti più,
tutte le forme e le dimensioni bruciano
nella parte posteriore dei miei occhi”.

Il Comandante Trevelyan perse metà del suo equipaggio nel corso di una terrificante tempesta nel 1952 ma se non fosse stato per lui, sarebbero morti probabilmente tutti. Soffrirà psicologicamente per molti anni in conseguenza di questo tragico evento.

L’idea nasce dalla visione da parte di Richard, di un documentario televisivo sui veterani del conflitto anglo-argentino del 1982 nelle isole Falkland-Malvine (la stessa che originò anche la celebre “Shipbuilding” composta da Elvis Costello e interpretata da Robert Wyatt e in seguito, in ambito folk inglese, anche da June Tabor, The Unthanks, Steeleye Span).

E’ un testo crudo che descrive gli stress post-traumatici che attanagliano i combattenti di qualsiasi guerra, anche se quella in questione, fu breve, lontana e combattuta su un minuscolo territorio in mezzo al mare. Ma le sue terribili conseguenze non possono essere diverse da quelle di chi ha vissuto le grandi ostilità mondiali.

E’ un tema ricorrente nel canzoniere thompsoniano: “Shoot Out The Lights”, “Al Bowlly’s In Heaven”, “Woods Of Darney”, “Dad Gonna Kill Me”. Evidentemente utile a scavare nell’inevitabile contrasto generazionale tra il desiderio di tranquillità che avevano i suoi genitori e l’urgenza adolescenziale di ribelle affamato di rock’n’roll. Ma, durante l’infanzia di Richard, la nonna cantava in casa, tutti i giorni in gaelico mentre il padre ascoltava dischi di musica tradizionale scozzese, Charles Trénet, Jean Sablon, Édith Piaf.

La lenta ballata “Singapore Sadie” è una canzone d’amore “bruciante e accecante” per una donna mistica e celestiale che richiama certe ballate del Bob Dylan di “Desire” di metà anni ’70, col violino di David Mansfield al posto di quello di Scarlet Rivera.

Durante il periodo di Trevelyan all’interno della Marina Mercantile ebbe una relazione irrequieta con una donna proveniente da una famiglia ricca caduta in disgrazia.

“non credo ai miei occhi, non credo alle mie orecchie,
l’amore è complicato, i sogni finiscono frustrati,
il romanticismo è sopravvalutato…
ho incontrato dei tacchi alti, delle lingue argentate
che filavano adulazione
ma le loro menti erano ruote in movimento”.

Trevelyan non si fidava di nessuno, specialmente dopo essere stato truffato nel corso di un investimento alle Isole Cayman. La cosa lo inasprirà contro i propri simili nonostante avesse ricevuto una educazione cristiana nella chiesa bassa “Plymouth Brethren”. In mare dove fiducia e collaborazione sono tutto, Trevelyan risultava un uomo diverso e senz’altro migliore.

“The Day That I Give In” è una disperata dichiarazione d’amore non corrisposto

“tutti mi dicono che è un peccato,
che amo invano ma non posso farci niente,
ogni volta che ti vedo una scintilla illumina l’oscurità…
ma tu non mi vuoi,
pensi che io sia infetto come un peccato mortale…
ogni giorno mi muovo in una nebbia,
galleggio su una marea di sogni, speranza e orgoglio”.

Negli anni ’60, mentre era sposato con la terza moglie, Treveyan era romanticamente perseguitato dalle attenzioni di una lavandaia di nome Mary Slattery, che però lui trovava assolutamente non attraente. La donna scambiava questa freddezza per aderenza religiosa e morirà a causa di un attacco di cuore, dopo tre anni di infruttuosi tentativi.

The Old Pack Mule

Il capolavoro del disco è, a mio parere, la tribale e cupa danza medioevale “The Old Pack Mule” che si giova della sottolineatura di un commovente accordion, suonato dallo stesso Thompson.

E’ una canzone sia con reminiscenze mediorientali che spunti musicali europei del ‘600. Ci si ritrova immersi tra le scene di un naufragio nel mezzo di miserabili attualità, tra le pagine di una delle tante carestie che si sono succedute nei secoli. A osservarla da lontano col cannocchiale, parrebbe galleggiare tra le vecchie ballate folk del mondo anglosassone, ma quando raggiunge la riva ti rendi conto da vicino che la sua temporalità è confusa; che sciacallaggio, sfruttamento, ingratitudine e ingiustizia stanno sui giornali di stamattina.
Come in ogni disco di Thompson, l’ambientazione gotica e arcana oscilla tra Bertolt Brecht e Charles Dickens, un po’ meno fosca delle canzoni iniziali, ma sempre tra le più affascinanti che si possano ascoltare in giro.


The old pack mule,
he’s breathed his dying breath
Poor old mule,
they worked his arse to death
His body’s still warm
though his soul’s gone up above
So sharpen up your knives, boys,
how shall we carve him up?

And who wants his hooves?
We’ll melt ‘em down for glue
We’ll suck the marrow from his bones
and skin the bugger too
And who wants his tongue
that made a bloody row?
He screeched and he honked
but death has dumbed him now

Oh, it’s hard times and hungry times,
there’s nothing left to eat
I’d stab my neighbour in thе back
for a little bit of meat
It’s hard times and hungry timеs
so wouldn’t it be kind
To save a little something nice
for them that’s left behind?

And who wants his liver?
There’s rich pickings there
We’ll chop it up and carve it up,
and each shall have a share
And who wants his brain?
The silly poor old dunce
They say he hardly used it,
he might have used it once

Richard Thompson da Ship to Shore

(Traduzione italiana Flavio Poltronieri)
Il vecchio mulo da soma
ha esalato l’ultimo respiro
Povero vecchio mulo,
gli hanno fatto il culo fino alla morte
Il suo corpo è ancora caldo
sebbene la sua anima sia andata lassù
Perciò affilate i vostri coltelli, ragazzi,
come lo faremo a pezzi?

Chi vuole i suoi zoccoli?
Li scioglieremo per farne colla
Succhieremo il midollo dalle ossa
e spelleremo il bastardo
Chi vuole la sua lingua
che lascia una sanguinosa scia?
Ha strillato e gridato
ma adesso la morte lo ha ammutolito

Oh, sono tempi duri e tempi di fame,
non è rimasto niente da mangiare
Accoltellerei alla schiena il mio vicino

per un pezzettino di carne
Sono tempi duri e tempi di fame,

quindi non sarebbe buono
Salvare qualcosa di cortese

per quelli che sono rimasti indietro

E chi vuole il suo fegato?
C’è un ricco bottino dentro
Lo taglieremo e lo spartiremo,
e ciascuno ne avrà una parte
E chi vuole il suo cervello?
Quello stupido, povero, vecchio somaro
Dicono che l’abbia usato raramente,
potrebbe averlo fatto una sola volta

I figli di Trevelyan sfruttarono il genitore a più non posso, non avendo alcuna pazienza nell’attendere l’eredità, i due maschi si rifiutarono anche di imbarcarsi per lui e la femmina si trasferì in Canada.
Nessuno dei tre comunque gli sopravvisse.

Seguono un pugno di brevi e poco significative canzoni sentimentali viste da diverse angolature: le prime due sullo sfaldarsi di un rapporto e la terza su come si possa perdere la testa in amore. Si inizia con il rock’n’roll danzereccio di “Turnstile Casanova” condito di esotismo sentimentale.

Il grande amore della vita di Trevelyan fu Elsie Banks, che lo lasciò per un famoso calciatore del Plymouth Argyle e che poi avrà anche una sordida relazione con un personaggio televisivo sposato.

Quindi l’altrettanto classica ballata “Lost in the Crowd”

“la notte era come un sudario, lei persa tra la folla,
quando mi ha abbandonato sono rimasto lì come se avessi piedi di argilla”.

La prima moglie di Trevelyan, Beersheba, se ne andò dopo anni di abusi, era felice solo quando lui stava in viaggio e non poteva così perseguitarla. Saltò da una carrozza del Cornish Riviera Express, alla stazione di Waterloo nell’ora di punta, per scomparire tra la folla dei pendolari. Infine si rifugiò presso sua madre.

Infine il canonico rock’n’roll Maybe” che dice di una ragazza talmente affascinante da togliere il respiro, regina della discoteca di un’epoca d’oro,

“le sue mani sono pulite ma la bocca è sporca”.

La canzone vuole anche narrare della lunga ricerca di Elsie da parte di Trevelyan.

l terz’ultimo pezzo “Life’s A Bloody Show” è un’acronia nei confronti di quelli che ostentano sicumera, una ode ai “venditori di olio di serpente e imbonitori” (forse direbbe Tom Waits) come tanti se ne vedono al giorno d’oggi in giro e in televisione. Galleggia su una melodia glamour da cabaret che Richard descrive “quasi una parodia di una canzone di Noël Coward o qualcosa della Berlino degli anni ’20”.

Trevelyan a terra si trasformava in un insensibile manipolatore, arrogante, truffatore, crudele e ubriacone.

“Fai finta di essere quella stella che tutti dicono tu sia,
fai finta che la vita sia uno spettacolo maledetto,
non lasciare i dubbi possedere la tua mente,
continua con le insensate chiacchiere quotidiane,
diffondi confusione, inchinati, adula, vantati…
fai finta che gli dèi stiano sorridendo,
fai finta di essere felice come un alce,
che le tue subdole bugie e i tuoi piccoli e disgustosi alibi,
in qualche modo assommandosi, compongano la verità”.

“What’s Left To Lose” è una riflessione a leggere tinte gospel, suoni west-coast e cori di Zara Phillips lungo i seducenti risvolti melodici della chitarra, a cui Thompson ci ha sempre abituati nei suoi sempre formidabili dischi

“addio falsa speranza, incontro crudele, tutto ciò a cui tenevo se n’è andato, ho camminato tutto il giorno solamente per fermare la mia memoria, la pioggia è caduta e mi ha inzuppato ma io non sentivo altro che il tuo calore, ricomincio da capo in un altro posto, nuovi volti per sostituire il tuo volto e un giorno non mi mancherai più”.

La conclusiva e dolcemente testamentaria “We Roll” è un northern country in cui spicca il violino di David Mansfield, che racconta del circolo bizzarro che ha portato Richard, nel corso di lunghissima carriera, a suonare decine di volte in città che non ha però mai veramente visitato

“Vi ringraziamo tutti per il vostro amore nel corso degli anni,
spero di avervi portato un po’ di gioia e qualche lacrima, adesso è quasi la fine e il sipario sta calando,
andremo in un’altra città addormentata”.

Anche Trevelyan scrisse, o forse adattò, una sea shanty che ovviamente mai ascolteremo e che recava il medesimo titolo “We Roll”. Narra che la cantava regolarmente nei pubs.

Richard è perennemente in preda a una specie di archeologia intima, alla ricerca di idee romantiche che ispirino le storie che poi finiranno in canzone. Sia essa profonda come “The Great Valerio” o leggera come “Vincent Black Lightning 1952” (oddìo, leggera solo in apparenza, poiché anche in questo caso il protagonista finisce male). E poi non va dimenticata l’importanza che per lui riveste l’aspetto religioso fin dalla conversione all’islam degli anni ’70.

In quell’epoca visitò il deserto e svariati luoghi sufi del nord Africa, anche nei pressi di battaglie per l’autodeterminazione del “Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el Hamra e del Rìo de Oro” (Fronte Polisario). L’organizzazione politico-militante del Sahara Occidentale in opposizione alla colonizzazione spagnola prima e all’occupazione militare poi, ad opera di Marocco e Mauritania. Erano anni e luoghi pericolosi, lontani dal turismo ma a quel tempo Richard pensava la sua fosse una specie di “chiamata nella Terra dei Santi”. In Marocco però bisognava presentarsi alla polizia ogni volta che si arrivava e si partiva da una città, compilare moduli in triplice copia, si veniva seguiti e spiati costantemente.

La scrittura scaltra di Richard Thompson risente inevitabilmente di quella degli straordinari letterati inglesi dei secoli precedenti, a cominciare da John Gay e dalla sua commedia satirica “The Beggar’s Opera” (Opera del Mendicante) del 1728, con musiche di Johann Christoph Pepush (che sarà punto di partenza anche della “Die Dreigroschenoper” – Opera Da Tre Soldi – del 1928, di Bertolt Brecht/Kurt Weill). Senza dimenticare Gilbert e Sullivan (William Schwenck Gilbert, librettista e Arthur Sullivan, compositore) di fine era vittoriana, Cole Porter o Noel Coward.

P.S. un mio excursus su Richard Thompson è stato precedentemente pubblicato qui: https://www.blogfoolk.com/2020/02/complimenti-sir-richard-thompson.html

[1] il famoso gruppo americano/canadese che divenne celebre per aver accompagnato Dylan nel 1966 e lavorò poi molte altre volte con lui negli anni

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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