Bretagna: fogli volanti, strumenti dimenticati, lingue addormentate, radici vive…

La vita dei popoli, anche nelle necessità più umili, funziona perché ci sono alcuni uomini lassù in collina, che osservano i segni delle stelle, mantengono vivo il fuoco prometeico e cantano canzoni che fanno crescere le spighe.” (León Felipe)

I “fogli volanti” sono stati anche in Bretagna i primi preziosissimi documenti popolari attraverso i quali venivano diffusi a mano e a poco prezzo, i testi delle canzoni, sovente su carta di scarsissima qualità, per risparmiare. Circolarono fin verso la metà del XX secolo, venduti ai mercati, alle fiere, durante i pardons religiosi, il primo che si conosce data circa la metà del XVII secolo. Riflettevano ovviamente la vita e le preoccupazioni di quella società ma potevano servire anche da informazioni su avvenimenti lontani o diffusione di idee politiche oppure religiose e quindi venire regalati agli occasionali lettori incontrati.

Molti di questi testi sono andati, ahinoi, perduti e finiti del dimenticatoio dei secoli ma quelli più graditi alla gente sono sopravvissuti, entrando così nel Mondo della Tradizione. Le varie guerre che si sono succedute hanno devastato, tra le molte cose, anche l’interesse verso il tradizionale, l’esodo rurale e introduzione sistematica della lingua francese hanno fatto il resto, relegando bretone e gallo nel guardaroba delle antichità.

Bretonnants alla riscossa!

Dall’inizio del ‘900 ai primi anni 2000 il numero di madrelingua in Bretagna era diminuito di oltre l’80%, l’UNESCO classificò come “gravemente minacciata” queste due che sono le uniche lingue celtiche ancora utilizzate nell’Europa continentale. Ecco come una tradizione diventa folklore, al termine della seconda guerra mondiale in Bretagna suonare un binioù poteva addirittura essere inteso come segno di “collaborazionismo”. Gli strumenti musicali erano diventati più difficili da trovare, i liutai scarseggiavano, pochissimi conoscevano i repertori e, cosa ancor più grave, nella Regione mancava un reale interesse per la propria Cultura. C’era in generale, un tale stato di deliquescenza che potevi facilmente sentir dire: “Se a Parigi trovano che questa cosa sia buona allora vuol dire che dev’essere davvero interessante!” E, in effetti, era nella capitale che erano sorti i piccoli circoli: Nevezadur, Jabadao, Ker Vreizh… con avanguardistici e coraggiosi corsi di bretone, conferenze, perfino una mini-biblioteca. Ma, nonostante le tristi apparenze, la Musica in Bretagna non era morta.

Da quando i nuovi colori della cornamusa scozzese erano comparsi all’orizzonte armoricano, i musicisti (nel 1946) si erano riuniti nella Associazione B.A.S. (Bodadeg ar Sonerion), i danzatori avevano ugualmente fondato locali cerchi celtici. Un bel giorno del 1950 sorse poi la Confederazione Kendalc’h (Perseveranza), nome che si deve al grande poeta Per-Jakez Hélias a cui seguì l’Associazione War’l Leur (Sotto il Sole) nel 1967 e infine Dastum (Riunire) che nel 1972, si pose l’obiettivo di conservare il patrimonio sonoro regionale.

Dal 1960 le festoù-noz erano risorte un po’ ovunque nella Regione, passando dall’essere incontro nei villaggi per festeggiare il termine di un lavoro stagionale nei campi o qualche avvenimento familiare, a fenomeno culturale diffuso e frequentato convintamente anche dai giovani. A quel punto un risveglio inarrestabile si era messo in moto: la musica era dappertutto, per la poesia non esistevano più né inverni, né estati, la spinta dei balli sembrava arrivare perfino dai venti delle piogge quotidiane. Si tornò a utilizzare l’originale lingua celtica, prima relegata a poche genti della Bassa Bretagna, i “bretonnants” risorsero da quelli che avevano continuato a parlarla dal XIII secolo, quando il verbo “bretonner” lo si trovava regolarmente nelle pubblicazioni in francese antico.

Nouvelle vague

Terra, mare e genti parevano essersi resi conto tutti insieme di una sussunzione possibile che li riguardava, con vivacità e intraprendenza impressionanti, alla fine di quel decennio molti rientrarono a vivere in Bretagna, in un viaggio fuori dalle guide turistiche. Contemporaneamente prese avvio la “nouvelle vague” con il primo pop-folk musicale di Alan Stivell, strumentazione “moderna” e “tradizionale” si davano appuntamenti, ricomparvero le bagadou, un crescente interesse per la lingua, recuperi storici, nuovi bardi, poeti e interpreti, venti di rinnovamento per l’antica strumentazione rurale. Bombarda, arpa, binioù e perfino il treujenn-gaol, una specie di clarinetto che tradotto letteralmente vuol dire “tronco di cavolo”.

Un’archeologia ieratica apparve in una nuova, copiosa scrittura sia prosaica che poetica, per molti artisti da onde o pietre sorse qualcosa di antico, anteriore al cosciente e del tutto irrecuperabile attraverso la memoria (quella che lo scrittore di Brest, Victor Segalen definiva “immemorabile”). Qualche cosa che vive anche se non appare come la “presenza di un esilio”. Da misteri, leggende, racconti popolari e miti uscirono le speranze di una vita migliore, da segreti e promesse apparentemente impossibili da onorare, uscì il coraggio per amare un paesaggio austero e spietato e affrontare la continua ostilità dei francesi.

La Carta Culturale e le Scuole Diwan

La storica, poetessa e filosofa Denise Le Dantec affermò che “la Bretagna è la singolarità della Francia”. Il 4 Ottobre 1977 sarà firmata la Carta Culturale tra la Repubblica Nazionale e i Consigli generali dei cinque dipartimenti bretoni. Si trattò di un riconoscimento ufficiale, perenne e fondante della personalità culturale della Bretagna, che marcò un cambio politico a sostegno anche dell’insegnamento della lingua. Permetterà che nel 1981 nasca l’Istituto Culturale, poi l’Agenzia Tecnica Regionale e quindi le Scuole Diwan, a cui alcuni sensibili musicisti come Denez Abernot contribuirono come insegnanti o sostenendole con concerti, iniziative e dischi militanti. Oggi il centro operativo di Dastum è a Rennes ma sedi associate si trovano a Lannion, Lesneven, Quimper, Ploemeur, Nantes, Redon, Saint-Caradec e perfino a Parigi, per 120.000 documenti registrati, una fototeca di 50.000 documenti iconografici, una rivista trimestrale e un archivio (anche sonoro) consultabile.

Lo spirito celtico

Da un certo momento degli anni ’70 si potrebbe tranquillamente sostenere che la musica tradizionale abbia smesso di essere un atto di creazione artistica per diventare atto sociale e che la Bretagna sia DIVENTATA la propria Musica. Un bella fortuna essere stati contemporanei a questi avvenimenti epocali di risveglio culturale, quella celtica è civiltà dai linguaggi multipli fin dall’alba della Storia, dispersa in tempi e spazi dal V secolo, ben prima quindi della nostra era. Rigorosamente orale dalle rive del Danubio agli estremi scogli delle isolette armoricane fino all’avvento dell’epoca cristiana, il che ha obbligato chi tenta di conoscere qualcosa delle sorgenti dello spirito celtico, a ricorrere a Greci, Latini o Monaci Irlandesi (che, al contrario, utilizzavano la scrittura).

Anche se risulta sempre ben evidente il loro approccio fondamentalmente opposto: i Romani pensano storicamente, i Celti miticamente. “Io sono figlio di Poesia, Poesia figlia di Riflessione, Riflessione figlia di Meditazione, Meditazione figlia del Sapere, Sapere figlio di Ricerca, Ricerca figlia di Grande Conoscenza, Grande Conoscenza figlia d’Intelligenza, Intelligenza figlia di Comprensione, Comprensione foglia di Saggezza, Saggezza figlia dei tre Dèi di Dana” (Colloquio tra due Saggi, IX secolo, trad. F. Poltronieri). Per i Celti la creazione è permanente, i preti sono incantatori, appartengono alla classe druidica, sono “padri della parola”, anche lo storico greco Diodoro Siculo (vissuto tra l’80 e il 20 a. C.) sottolinea la loro ferrea tendenza a rinnovare le antiche radici con rimarchevole continuità e imperitura convinzione: “Quando entrò in un tempio greco, il capo gallese Brennos neppure guardò le offerte d’oro e argento impilate, prese solo le statue degli dèi in legno e pietra, si mise a ridere poiché avevano dato agli dèi delle forme umane e li avevano fabbricati con materiali deperibili” (Diodoro Siculo, frammento XXII, I secolo a.C. trad. F. Poltronieri).

Nel mondo celtico si tratta di uno stato dello spirito, d’altronde i Druidi erano considerati maghi, filosofi, poeti “Signore, tu conosci il privilegio di questo fiume: nessuno può attraversarlo, non ci sono ponti sopra…sarò io il ponte” (Brânwen, dea gallese dell’amore e della bellezza, XI secolo, trad. F. Poltronieri). La tradizione orale è una ricchezza incomparabile poiché non mette mai fine al pensiero che è in costante mutazione e tiene conto di tutti i ritmi dell’umanità.

Interrogazione e riflessione sono le basi della molteplicità del pensiero celtico. “Tre sono i principali stati per le creature animate: il primo è Annwfn (Abisso) che fu la loro origine, il secondo Abred (Esistenza) che devono attraversare al fine d’istruirsi e il terzo è Gwynfydd (Mondo Bianco)” (Triadi dell’isola di Bretagna, Llywelyn Siôn, 1560, poeta e bardo gallese, trad. F. Poltronieri).

Per molti essere in Bretagna negli anni ’70 ha significato trovarsi dentro un sogno più che in un paese, un luogo onirico non è mai una frontiera, c’è stato un momento in cui le musiche popolari non sembravano più nemmeno interessate a conoscere le proprie origini. Xavier Grall sostiene nel libro “Barde imaginé” (1968) che il peggiore dei crimini sia l’immobilità, il restare incollati a sedie o città come cose stagnanti, senza progredire, senza nomadismo, poiché ogni cammino è un cammino spirituale. L’inebriamento costante delle canzoni dei nuovi autori rispondeva unicamente alla forza della musica e della danza, ogni variazione dei kan-ha-diskan mostrava una ricchezza a disposizione di chiunque. Non si trattava di pietre preziose ma del brillare di sguardi che facevano intravedere una vita terrena meno scura del cielo oceanico sovrastante. E in Bretagna i momenti della natura passano assai velocemente, lo spirito non fa mai a tempo a sublimare la bellezza di un presente e così anche in poesia, l’esaltazione lirica non riesce a misurarsi su niente, è questione di vento, non è semplice affrontarla.

La storia infatti, da allora ha camminato veloce e senza voltarsi indietro. Nessuno ricorda più di quando alla fine del XIX secolo, i Bretoni disperati si ammassavano a Parigi e scarsa memoria c’è pure del periodo 1950-1960 quando vi emigrarono moltissimi giovani per poter studiare o lavorare. Nel giro di pochi decenni la passione e lo spirito celtico hanno superato qualsiasi frontiera visibile e invisibile, una volta sarebbe stata una bestemmia anche solo pensarlo, ma la capitale è oggi a tutti gli effetti, una specie di sesto dipartimento della Regione. Ci vivono più di un milione di armoricani, perfino un suo ex-sindaco Bertrand Delanoe, una volta ebbe a dichiarare enfaticamente che Parigi è una città bretone. Questo passaggio ha contribuito a donare alla gente coscienza della propria “bretonnitude“, lo stesso Erik Marchand ha scoperto il canto di Madame Bertrand nei circoli parigini, attraverso Pierre Guilleux (verso il 1974).

Certo non va ignorato che la rinascita è stata possibile anche perchè qualcuno in Bretagna difendeva e conservava in maniera tenace, i patrimioni popolari di canti e danze rimasti sempre molto presenti all’interno delle abitudini familiari. Quando il Presidente della Repubblica Francese, Valéry Giscard d’Estaing (1926 – 2020) a metà anni ’70 aveva manifestato il desiderio di recarsi in Bretagna sollecitando che un circolo celtico lo accogliesse, si sentì rispondere un secco diniego da parte degli amministratori locali Polig Monjarret e Yvonig Gicquel, i quali ribadirono sarebbero stati più graditi fondi e mezzi a favore della Cultura. Cosa che fino a quel momento non era mai accaduta. Correvano gli anni degli attentati del Fronte di Liberazione Bretone (F.L.B.), dei contadini, degli operai e dei preti bretoni incarcerati…e il Presidente accolse quelle richieste, come detto, lanciando la Carta Culturale e “sdoganò” la cultura regionale affermando pubblicamente nel 1977, a Ploërmel (Morbihan): Non c’è contraddizione tra il desiderio di vivere la cultura bretone e la consapevolezza di essere francesi, voi che avete fatto così tanti sacrifici per la patria francese durante la grande guerra, come durante la seconda guerra mondiale e la Resistenza…”

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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