John Renbourn e Clive Carroll si incontrarono la prima volta nel 1990 dentro il pub del Leone Rosso, il più antico di Manningtree, nella Contea di Essex, dove il celebre chitarrista teneva un concerto. Oggi in quel luogo si può ancora suonare davanti a centotrenta persone, con tanto di caminetto acceso e birre d’ogni tipo, provenienti soprattutto dell’Anglia Orientale.
In quel momento John aveva posto fine al terzo e ultimo gruppo che aveva creato “Ship of Fools” e aveva quarantasei anni. Clive di anni ne aveva appena quindici, essendo nato l’anno in cui Renbourn, dopo aver terminato la sua avventura con i Pentangle, incideva ancora per la gloriosa Transatlantic Records ed era immerso nelle composizioni rinascimentali di “The Hermit”.
Il ragazzino aveva telefonato all’organizzatore per proporsi in apertura di serata con alcuni brani del liutista inglese (o irlandese) John Dowland (1563-1626), più alcuni di sua composizione, un paio influenzati dallo stile del chitarrista statunitense Joe Pass (Joseph Anthony Passalacqua) (1929-1994), celebre per la tecnica “walking bass”, innovativo contrappunto melodico in corso d’improvvisazione.
Renbourn dopo che lo ascoltò casualmente suonare quella sera, rimase notevolmente impressionato e appena il ragazzo ebbe conseguito la laurea al Trinity College of Music di Londra, volle portarlo in giro a suonare in Inghilterra, Europa e Stati Uniti, facendogli provare la vita da musicista.
Abbot & Kid
In un’occasione a Wymondham, Norfolk, forse per una suggestione un po’ da Guglielmo da Baskerville/Adso da Melk (ne “Il Nome della Rosa”) i due vennero ribattezzati: “Abbot” (l’Abate) e “Kid” (il Ragazzo). Ricordo che nell’agosto di quel 1990, John Renbourn venne a suonare anche in Italia (come molte altre volte prima e dopo) duettando con Bert Jansch e Danny Thompson sul prato dello stadio comunale di Gandino (Bg) e interpretando nell’occasione anche il brano “The Time Has Come” di Anne Briggs.
The Abbot
Renbourn morì in casa, tristemente solo, il 26 marzo 2015 a Hawick, Scozia. Cinque anni dopo Clive ha deciso di consacrare un album doppio, a ripercorrere col filo della memoria la carriera solista del suo amico scomparso, includendovi anche “Intrada” e “Danse Royale”, due composizioni di John mai registrate prima. Il tributo è partito proprio da “The Hermit”, quel pomeriggio del marzo 2020. Seguendo quello che era lo spirito del Maestro, in continuo rinnovamento di composizioni e arrangiamenti, ha aggiunto clarinetto basso, piano accordion, corno inglese, flauto e glockenspiel a “The Pelican”, ridotto a una chitarra “Orlando” che originalmente era stato pensato come duetto (con Bert Jansch) e apportato innovazioni a “O Death” e “The Black Balloon” (scritto in francese “Le Ballon Noir”). Ha coinvolto inoltre nella interpretazione della suite “Sidi Brahim” carissimi amici musicisti di John, che con lui scrissero pagine indimenticabili, quali Wizz Jones, Jacqui McShee e Stefan Grossman. Ma nel corso delle registrazioni molti sono stati gli occasionali ospiti che hanno contribuito con i loro strumenti e talvolta voci, quali Lisa Hannigan che canta la natalizia “Watch the Star” (originariamente proposta nel 1967 dalla compianta Dorris Henderson e subito entrata nel repertorio dei Pentangle).
Penso che assai raramente qualcuno si avventurerà a incidere re-interpretazioni dei complessi pezzi di Renbourn, vista la straordinaria capacità originale del loro autore; ma rispetto e abilità vanno di pari passo in questo disco di Clive, a cominciare dall’immagine di copertina. Nella sua mente la visione musicale dell’“Abate” prende le sembianze dell’arte preraffaellita che sorta in età vittoriana, idealizzava la natura e il sacrificio della realtà in nome della bellezza. Così la musica di John, ricca com’è di dettagli simbolici e di cenni al fantastico.
Carroll, chitarrista creativo mescola la musica classica formale con vari stili folk e roots, convinto com’è che Robert Johnson e Ivor Stravinsky avrebbero potuto benissimo collaborare. Anche John Renbourn aveva imparato da Davy Graham a scoprire musica elisabettiana e folk barocco, improvvisando jazz moderno. È una questione di processi mentali similari. L’accattivante immagine parzialmente rappresentata in copertina rimane fedele all’atmosfera artistica della fine ’60/inizio ’70. Inizialmente avrebbe dovuto essere una scena di villaggio dell’olandese Pieter Bruegel il Vecchio, con l’idea che ogni cosa trovasse riferimenti ai titoli delle canzoni, poi è stata invece commissionata a Georgina Smigen-Rothkopf. La chiesa vorrebbe rappresentare quella in cui viveva realmente Renbourn (The Snoot, negli Scottish Borders) ma nell’intero dipinto originale compaiono anche la Donna e l’Unicorno, la Morte (rappresentata dal melo), il Cerchio attorno al Sole, il Pellicano, l’Eremita, le Stelle.
Una nota privata: impossibile per me non sentire una intensa e improvvisa reviviscenza quando inizia l’evocativo canto di “Wedding Dress” e, come in sogno, arrivano in visita nella stanza, meravigliosi fantasmi di un tempo musicale lontano.