Il Paradiso e l’Inferno in Bretagna

L’altromondo bretone è una visione reale dell’aldilà, non di fantasia, la gente racconta questi accadimenti, come noi commentiamo le notizie di ieri sul giornale quotidiano. Il cristianesimo non ha potuto distruggere le storie degli spiriti che ritornano o dei segni premonitori. Ci pensano i gwerz, cantando di marinai e pescatori, mendicanti e contadini, a raccontare di genti di granito o di vento, sospese come spettri sulla porta dell’oblìo.

L’Ankou, il dio dell’altromondo bretone

Ankou altromondo bretone
Ankou

L’Ankou è magro e sfatto, non c’è un’oncia di carne sulle sue ossa, se ti acchiappa rende il tuo sangue freddo come ferro o pietra. Non c’è ricchezza che lo possa comprare, da te non vuole nemmeno uno spillo e non hai scampo. Non fa grazia a nessuno, non l’ha fatta a Gesù, né alla Vergine Maria, a Messer San Giovanni, amico di Dio, a suo padre Giacobbe, che ugualmente lo fu. E ancor meno al virtuoso e sommo Mosè, guida del popolo ebraico nell’Esodo e profeta dell’Islam. Né a nessun papa, cardinale, regnante, principe, principessa, vescovo, prete, nobile, artigiano, mercante e nemmeno al contadino.

A tutte le ore del giorno o della notte l’Ankou se ne va, da solo, a spasso per il mondo e, se lo vuole, dall’alto del Ménez (Monte) con un sol colpo, si prende cinquemila uomini, belli o brutti che siano e se li porta in viaggio nell’Atromondo bretone.

Il fabbro dell’Ankou

L’Ankou è un terribile “oberour ar maro” (operaio della morte) e per affilare la sua falce dal manico alla rovescia usa un osso umano. Quando proprio ne ha bisogno, fa riparare il ferro da un qualche fabbro che si attarda al lavoro e tiene acceso il fuoco nella fucina di bottega oltre la mezzanotte.
Quel fabbro però, dopo che ha reso servizio all’Ankou, non lavorerà mai più per nessun altri al mondo.

La strada per l’inferno

strada per l'altromondo bretone

Per i Bretoni la strada che porta all’inferno si presenta ben curata ed invitante. Se percorri quel cammino ci trovi novantanove taverne e in ciascuna di esse hai tempo per una sosta che dura cento anni. Ti siedi comodo e vieni servito da delle cameriere veramente assai graziose e gentili. Ti apparecchieranno liquori dal sapore sempre più gradevole, man mano che vai avanti nel percorso. E’ dura resistere alla tentazione di esagerare, ma se riesci a non ubriacarti prima dell’ultima taverna, fai ancora in tempo a tornare indietro e sfuggire all’altromondo bretone.

Se però giunto alla novantanovesima taverna sei sbronzo fatto, allora è proprio finita. Ti arriva uno spintone da dietro e per dissetarti stavolta, ti danno da bere un orribile miscuglio di sangue di rospo e sangue di biscia.

L’incontro con il diavolo

Durante la vita, a seconda del luogo, sono numerose le sembianze che può scegliere il diavolo, può presentarsi come un bel ragazzo od un mercante di carbone, un vecchio curvo oppure un tipo con i piedi a cavallo. Un re serpente o ancora un principe rosso, un uomo con le unghie di ferro o capelli color fuoco. Non dorme mai e per lui notte o giorno non fa differenza.

C’houec’h miz deiz ha c’houec’h miz noz a ra d’ann diaoul eur bloarz cloz
(Sei mesi giorno e sei mesi notte fanno per il diavolo un anno intero)

Antico detto bretone

Ogni tanto qualcuno però si salva e riesce a tornare indietro dall’Atromondo bretone. A Tréguier, per esempio ci fu un contadino che amava troppo il denaro e aveva rischiato grosso a causa della sua avidità. Ma aveva avuto fortuna negli incontri e nelle circostanze, cosicché l’aveva scampata, ed era tornato in Bassa Bretagna. Aveva in seguito composto un canto nella notte dell’Epifania, pensando al Carnevale in arrivo. E a tutti quei giovanotti in pizzi e velluti, che sarebbero venuti al molo a ballare, mentre nelle miserabili campagne i loro genitori non avevano il pane con cui sfamarsi. La canzone descrive come anche all’inferno, potranno continuare a ballare in una grande sala, ma senza calze e scarpe e su punte di ferro arroventato.

La strada per il paradiso

Anche sul percorso che dalla terra porta al paradiso ci sono novantanove taverne e anche in ciascuna di loro devi sostare. Quando non hai di che pagare però, devi rifare tutto il cammino all’indietro, verso l’inferno.

Nella taverna situata proprio a metà del percorso, una volta alla settimana, di sabato sera, ci va anche il buon Dio. Se incontra qualcuno che non sia troppo ubriaco, se lo porta in paradiso.
Dio fa l’appello e basta rispondere “presente” ma per farlo non devi avere la lingua troppo impastata. Quella taverna si chiama Bitéklé.

Storvan Danse de Bitéklé

Un santo alla porta

Prima di varcare le porte dell’Altromondo bretone si incontrano tre strati di nuvole, nell’ordine uno nero, uno grigio e uno bianco. Ti accompagna san Dionigi ma alcuni sostengono che invece sia san Maturino. Per ultimo davanti alla porta san Michele con la sua bilancia che ti pesa l’anima!
(I santi non hanno mai vissuto a lungo sulla terra, perché hanno tutti una gran fretta di tornare dal Signore e anche Lui ha fretta di riaverli accanto..)

Il Pellegrino di Kerbeulven sul cammino per l’Altromondo bretone

Un’antica leggenda bretone racconta dettagliatamente quello che si trova sulla strada per il Paradiso e lo fa attraverso la voce di un giovane che risponde alla stessa domanda “Cos’hai visto, figliolo…?”, delle strofe di “A hard rain’s a-gonna fall” di Bob Dylan.
Il pellegrinaggio inizia con il sole alto, eppure ai primi passi cala improvvisamente la notte, una notte non scura e nuvolosa e neppure rischiarata da stelle luminose. E’ come un sogno senza luce dove però si vede tutto.

l'Altromondo bretone

Il ragazzo, nel suo viaggio nell’Altromondo bretone, racconta di aver attraversato un anfratto di rovi irti di spine. Poi di aver visto sorgere dalla spianata, due enormi montagne, una bianca a destra e una nera a sinistra che combattevano tra loro. Con impeto e fragore spaventosi si scagliavano una sull’altra come persone infelici della propria sorte e invidiose di quella altrui. Due mostri di pietra che si infrangono cercando di infrangere.

Poi, attraverso un sentiero scosceso si arriva ad un litorale dove una nebbia tutta rossa introduce ad un mare in burrasca che furioso divora se stesso. E’ il fiato disperato delle onde sanguinati e quelle sono le persone a cui è stato imposto un matrimonio forzato o che sono maritate infelicemente. Con quei morsi senza posa alla fine si ammazzeranno a vicenda.

Vacche grasse e vacche magre

Sull’altra riva del mare un branco di mucche grasse e felici che pascolano serene e pasciute in un campo arido e brullo. Nella landa tutta pietrosa e desolante, sono le genti che prendono la vita giorno dopo giorno così come viene, rassegnate davanti a qualsiasi miseria.
Scavalcato con un balzo un muretto di pietra a secco, ecco invece un campo dove al contrario l’erba è alta e fitta. Arriva fino a toccare la pancia di un altro gruppo di mucche tutte scheletrite e sfiancate, con la pelle raggrinzita e le zampe vacillanti. Con tutta quell’erba rigogliosa a disposizione, invece di pascolare non fanno che fissare l’altro gregge di mucche felici. Sono come gli avari, mai appagati ed intènti continuamente ad ammassare il mondo intero in un guscio d’uovo.

Uccellacci e uccellini

foresta di Kerbeulven
la foresta tra cielo e terra

Il racconto del viaggio nell’Atromondo bretone prosegue: si entra in una foresta dove uccelli grigi e neri volteggiano senza mai posarsi a fare il nido, su nessun ramo degli alberi tutt’attorno. Eppure sono di ogni specie e dimensione: quel volo silenzioso e misterioso pare quello degli uccelli notturni. Ecco, questo rappresenta le persone che pregano solo con la bocca ma non con il cuore, il cui unico pensiero è salvare se stessi e la cui anima vaga incessantemente.
Inoltrandosi ulteriormente in quella foresta si incontrano uccelli tutti candidi e bianchi. Si lanciano dai rami più alti con un canto melodioso e al ragazzo pareva proprio di stare nella sua foresta di Kerbeulven in un mattino di primavera. Costoro sono quelli che non meritano il paradiso, ma che sono troppo puri per il purgatorio. Così se ne stanno tra cielo e terra, in dolce penitenza.

L’alta Montagna

Poi eccoci ai piedi di un’altra montagna, talmente enorme che sembra una muraglia che copre tutto il cielo. L’erba e il muschio sono soffici come velluto e nell’aria c’è un profumo dolce che la brezza dipana assieme ad un canto delicato, sereno e malinconico. Sono i bimbi morti senza battesimo, l’erbetta è la loro tenera carne e il canto esprime la tristezza per aver perduto la loro mamma e non aver trovato Dio.
Dalla sommità della montagna volgendosi all’indietro il giovane può scorgere una moltitudine di ragazzi come lui. Tentano penosamente invano la scalata, sono morti prima di fare la prima comunione: verrà un giorno in cui Dio batterà per tre volte le mai e li chiamerà tutti a sé.

Le tre strade

A questo punto del racconto del viaggio nell’Atromondo bretone ci si trova ad un incrocio di tre strade, talmente prossime da sembrare una sola. Appare dapprima un castello dalle cui finestre rosseggianti si scorge un grande fuoco ed escono fumo e grida strazianti in mezzo ad un insopportabile puzzo di zolfo. Quindi un secondo castello circondato da una musica meravigliosa, al cui interno ci sono una scalinata, un corridoio, un portico e splendide stanze. La prima piena d’uccelli, nella seconda quattro poltrone sulle quale sono riposte corone e cinture, nella terza le poltrone sono solo due, poi altre e altre stanze, all’infinito…
Ma improvvisamente al ragazzo sembra che la notte si rischiari piano, piano e che quella sia proprio la strada che porta a Kerbeulven. Infatti sotto un castagno riconosce una luce bianca e il luogo da cui era partito!
Il suo viaggio nell’Atromondo bretone gli ha fatto smarrire completamente la cognizione del tempo (oramai vent’anni sono passati), si interroga su cosa dire ai genitori per giustificare la sua assenza.
Ma non deve dire nulla, perché per tutto quel periodo il suo angelo custode, lo ha sostituito nella casa e nessuno si è accorto o preoccupato di niente.

LINK
https://thesession.org/recordings/1881


A hard rain’s a-gonna fall di Bob Dylan trae “O where ha you been…?” dalla ballata scozzese Lord Randall. Qui a Verona fu pubblicata nel 1629 dal fiorentino Camillo il Bianchino una raccolta di canti popolari (secondo quanto riportato da Alessandro d’Ancona) che conteneva anche la ballata de l’Avvelenato che a Lord Randall è associata. Se ne trovano versioni dialettali in varie regioni italiane e comunque anche in Europa ne esistono in lingua magiara, tedesca, danese, svedese…e confrontando i testi si rimane colpiti dalla loro omogeneità, nessuno sa dire quale sia la versione originaria.

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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