Trinchiamo i nostri bicchieri

Trinquons nos verres

Le canzoni dei Marinai (in Francia)
La Musa Gagliarda
Un dewezh ‘barzh ‘ger (Alan Stivell)
Trinquons nos verres (trad Alta Cornovaglia)

Le canzoni dei Marinai

In Francia tra tutti i mestieri, quello del marinaio è stato certamente il più cantato, sovente in maniera poco seria, anche perché i “veri marinai” conservavano una certa ritrosia a far sbarcare a terra i loro canti. L’approccio agli Oceani da parte di un uomo richiedeva un coinvolgimento ben differente rispetto a quello di un qualsiasi pescatore o di un lavoratore di nave costiera. E’ difficile immaginare il piacere nella navigazione da parte di chi rischiava la pelle ad ogni istante del giorno e della notte, compiendo fatiche immani, a fronte di pericoli e nemici di una forza spropositata rispetto alla propria. Per di più spessissimo in condizioni di trattamento al limite del disumano da parte di capitani senza scrupoli che erano, in pratica, i loro datori di lavoro.

Le canzoni del mare sono per questo rimaste in ambito tradizionale. Visto che servivano a ritmare manovre o consolare nostalgie, sono state lungamente trattenute a bordo dai marinai come linguaggio iniziatico, una maniera di riconoscersi tra di loro e solidarizzare, alla larga dalle banali canzoni modaiole o convenzionali che andavano per la maggiore a terra ed erano spesso superficiali adattamenti di shanties inglesi.

Comunque anche quando sono venute allo scoperto in maniera più decisa, non si sono contati gli interventi per modificarne i ritmi rigidi di lavoro o per edulcorarne le crude parole dei testi. Ma quelle descrivevano il riflesso degli spettri e delle durissime frustrazioni di un universo esclusivamente maschile[1] costretto a lungo a non toccar costa…né donna. Il piacere così trattenuto e poi scatenato è quello che ha trasformato il repertorio di canzoni di bordo in canzoni di bettola.

E’ difficile trovare delle opere serie consacrate ai canti di mare, persiste una disparità rispetto agli studi e alle pubblicazioni rivolte ad altri folklori particolari delle varie regioni francesi, dove tutti i svariati territori specifici hanno le loro monografie dedicate. La stessa raccolta del Capitano Hayet[2] del 1927, sempre citata, non presenta che una quindicina di canzoni, finendo per essere una caricatura alquanto ridotta di un ben più ricco patrimonio. Ma è quello che rimane oggi di prezioso di quella affascinate e perduta tradizione popolare.

La Musa Gagliarda

Ci si rivolge spessissimo alla “gallicità” degli antenati ma la canzone gagliarda in genere non è mai mancata nell’Esagono. Ritornelli e quartine inneggianti a favolose, oscene, satiriche o libertine ubriacature dovute al buon odore delle gonne non furono, nemmeno in passato, meno ispiratrici del succo di vigna. Anzi. Tutte sbronze buone a illudere di saziare l’atavico bisogno di sentirsi amati, cantate in componimenti provenienti già dal Medio Evo.

In Italia non siamo secondi a nessuno ma certo anche in Francia abbondano i canti dedicati a corpi femminili e vino, composti da sottili orafi della rima. Sonetti licenziosi e percorsi sinuosi di scrittura che lasciano intendere ben più di quel che dicono, d’altronde con quella poesia al fianco: de Ronsard, Voltaire, Rabelais, La Fontaine, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Brassens…canzoni di una impagabile coltezza, talmente sopraffina da far perfino affermare a un eminente folklorista, compositore e musicologo come Julien Tiersot che “La canzone dell’ubriacatura non si può considerare genere popolare”.

Un dewezh ‘barzh ‘ger

Uno dei dischi a torto più sottovalutati di Alan Stivell è il sofisticato “Un dewezh ‘barzh ‘ger” (Una giornata a casa). Si presenta un po’ dimesso a cominciare dall’informale copertina, nella quale Alan seduto sulla pietra di casa, nei pressi di un roseto, in espadrilles nere, appare molto distante dall’immagine della star musicale di cui parlavano da anni i giornali francesi. Non suona la sua celebre arpa (che non compare neppure) ma un inedito dulcimer, che su nessun palco l’abbiamo mai visto arpeggiare. Nel 1978 non era ancora venuto il tempo della moda “world music” e la ricerca di arrangiamenti non ortodossi e disimpegnati dalle consuetudini tradizionali, risultava piuttosto innovativa. Metà del disco è frutto di improvvisazioni, mescola arpa, violoncello, sitar, accordion, bombarda, tampura, cornamusa. Più che i suoni sono le apparenze modeste e conviviali ad affratellarlo a “E Langonned” di quattro anni prima. I suoni solistici della cornamusa scozzese vengono raggiunti da quelli irlandesi del flauto, mentre arpa celtica e tampura indiana tengono il tutto legato insieme. Con armonie talvolta dissonanti Stivell risponde elettricamente a quella parte del pubblico che all’epoca ne aveva contestato le scelte. Il disco venne registrato a Parigi e l’accento utilizzato nel cantato non è il bretone ufficiale ma ancora una volta quello di Langonned, come nell’omonimo sopracitato disco. Lì aveva scelta al tempo la sua residenza, in quello che riteneva essere “il centro di dove si trova il territorio di Bretagna”.

Nel 1978 Stivell, dopo aver appena lasciato la Philips si era accordato con la CBS, il suo gruppo si era ridotto a un quartetto comprendente Mikael Ar Valy al basso, il compianto Marc Perru alle chitarre e l’inglese Chris Hayward a flauto traverso e percussioni. L’ensemble storico e mitico dell’Olympia era lontano, ognuno stava facendo la propria strada: Gabriel Yacoub con i Malicorne, per la prima volta non compariva in un disco neppure Dan Ar Braz. Qualcuno rimpiangerà le sue corde, ignorando che in realtà fu invece proprio Alan a volere la chitarra elettrica nella musica bretone. Ar Braz sarebbe stato più orientato verso l’acustica e inizialmente, pur essendo nativo di Kemper, non conosceva quasi nulla della musica popolare della sua terra. Era Stivell che desiderava esprimere nei suoi dischi, contemporaneamente, due aspetti contrari ma complementari in una sorta di dialettica di opposizione dei suoni.

L’inizio del disco è un evocativo, strumentale invito alla fraternità musicale, un motivo melodico ripetitivo dalle sonorità jazzate del flauto raddoppiate dalla bombarda. Si tratta di “Trinquons nos verres” che non verrà, ahimè, mai interpretata dal vivo. Innumerevoli sono ovunque le canzoni tradizionali dedicate al bere come rimedio e consolazione di pressoché per tutti i mali dell’anima: “…Ah! Se mai andrò nei cieli, mi batterò col buon Dio, a colpi di lancia picchierò sugli angeli, farò loro vedere che è mio dovere bere vino dal mattino alla sera! Ah! Se mai andrò all’inferno, mi batterò con Lucifero, a colpi di sciabola picchierò sui diavoli, farò loro vedere che è mio dovere bere vino dal mattino alla sera!” (“Amis, Buvons!”) Ma anche senza andare a scomodare Dio, Lucifero o Dioniso con tutti i culti misterici delle sue Baccanti, senza disturbare Bacco che, dall’appellativo greco “Bákkhos” (con cui Dioniso veniva indicato nel momento della possessione estatica) prese il nome, si tratta più semplicemente di una chanson à la marche dell’Alta Cornovaglia (raccolta da Gilbert Bourdin e Christian Dautel dalla fonte Sig. Pierre Rousseau di Pluherlin nel Morbihan).

Alan Stivell

Pochi forse sanno che questa splendida melodia in origine contempla anche un suo testo, deluso e rancoroso, che Stivell certo conosceva; venne escluso probabilmente per essere stato valutato poco in sintonia con l’atmosfera rilassata di quel momento d’insieme.

Trinquons nos verres

Esistono di questa canzone alcune declinazioni ma scarse sono le sue registrazioni, spicca quella cantata da Christian Desnos con l’accompagnamento di Yacoub/Huby/Pariselle/Le Vraux/Hindenoch/Dompierre, inserita in un volume de “Anthologie de la Chanson Française”. Una quartina differente raccolta nel Berry venne invece registrata nel 1987 dal gruppo “Beau temps sur La Province”.


Trinquons nos verres et vidons la bouteille, la,
Et laissons là les plaisirs de l’amour,
Et laissons là tous ces cœurs infidèles
Qui ne veulent pas nous donner de secours.
Quel secours veux-tu que je te donne, la,
Je ne suis pas le fils d’un médecin!
Je ne suis pas celui que ton cœur aime:
Va-t’en plus loin accomplir ton destin!
.J’ai parcouru la plaine, la montagne, la,
J’ai entendu le rossignol chanter,
Et il disait, dans son joli langage:
“Les amoureux sont souvent malheureux…”
Battez tambour ! battez la générale, la,
C’est aujourd’hui que nous devons partir.
C’est aujourd’hui que l’amour m’abandonne,
Que ma maîtresse m’a refusé son cœur.
Vous pleurerez, vous pleurerez, la belle! la,
Vous pleurerez mais il sera trop tard;
Vous pleurerez dessus vos aventures,
En regrettant votre fidèle amant!

– traduzione italiana Flavio Poltronieri –
Trinchiamo i nostri bicchieri e svuotiamo la bottiglia, la,
Abbandoniamo i piaceri dell’amore,
Lasciamo tutti questi cuori infedeli
Che non vogliono aiutarci.
Che aiuto vuoi che ti dia, la,
Non sono figlio di un medico!
Non sono quello che ami:
Vattene lontano a compiere il tuo destino!
Ho percorso la pianura, la montagna, la,
Ho sentito cantare l’usignolo,
E diceva nel suo bel linguaggio:
“Gli innamorati sono spesso infelici…”
Battete il tamburo! Suonate l’adunata generale, la,
E’ oggi che dobbiamo partire.
E’ oggi che l’amore mi abbandona,
Che la mia fidanzata mi ha rifiutato il suo cuore.
Piangerai, piangerai, bella! la,
Piangerai ma sarà troppo tardi;
Piangerai per le tue avventure,
Rimpiangerai il tuo amante fedele!

Folk Revival

Christian Desnos

[1] anche se non mancano sia nelle storia che nelle canzoni le ragazze travestite da marinaio che affrontano la dura vita del mare per desiderio d’amore e avventura. https://terreceltiche.altervista.org/maidens-the-sea/
[2] https://terreceltiche.altervista.org/erotismo-marino-canzoni-tradizionali-oscene-o-blasfeme-dei-marinai-francesi-al-tempo-della-vela/

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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