Canzoni della Vita Quotidiana

Spigolature cantautorali a cura di Flavio Poltronieri

In questi giorni di normale depressione sociale dove si potrebbe celebrare l’oscuro eroismo di chi non cerca in ogni modo di distinguersi o di farsi notare a tutti i costi, ostentando sovente il nulla, la normalità del quotidiano potrebbe essere incarnata dalla grande forza poetica delle canzoni di due cantautori delle mie parti.

Il veneziano Alberto D’Amico (1943-2020) e il carnico Giorgio Ferigo (1949-2007) hanno scritto in passato due struggenti composizioni sulla quotidianità, difficilmente uguagliabili.

Oggi che entrambi se ne sono andati è perlomeno doveroso ricordarne la statura di autori popolari di questi nostri modesti tempi.
Cavarte dal fredo (Alberto D’Amico)
Una sabida di sera (Giorgio Ferigo)

Rinascita Gaelica?

La civiltà celtica è formalmente sparita dalla faccia della terra perché è rimasta bambina, ha rifiutato consapevolmente di “diventare grande” e maturare. Ha pagato caro il suo considerare miticamente lo svolgersi dell’esistenza e della storia, al posto di seguire invece le loro cronologie. I Celti rifiutavano una società basata sulla distinzione tra sacro e profano, avevano imperniato l’organizzazione sociale sul potere bifronte di sovrano e druido.[1] In quella assoluta orizzontalità non c’era posto per una concezione statale come quella degli odiati Romani prima e dell’intera storia mondiale prevalente poi.

Ossian suona la sua arpa bardica davanti agli dei
Ossian suona l’arpa davanti agli dei

Oggi osservano immersi nel lontano orizzonte brumale del mito in cui sono stati relegati, le nostre caotiche società urbane moderne, centrifughe, universaliste, divenute laiche per forza, a causa del susseguirsi di costanti e continue giuridicità. Esattamente il contrario di quello che avrebbero fatto loro[2].

Quanto sia lontano oggi il mondo celtico lo si può vedere, con meno folklore da mercato di quello italiano, anche in Irlanda dove sono stati degli anglofoni a ideare la rinascita gaelica, l’indipendenza e la costituzione dello Stato libero. E dove attualmente il gaelico, pur essendo lingua ufficiale nazionale, è mantenuto in vita a colpi di sovvenzioni, nonostante all’entrata di ogni villaggio, anche il più sperduto, campeggino cartelli rigorosamente bilingue. Non che la cosa sia poi tanto differente in Bretagna…ma la storia prosegue, mancando ogni possibile confronto reale nessuno potrà mai dire cosa sarebbe successo se la civiltà celtica fosse sopravvissuta. Se la vita quotidiana delle genti cisalpine sarebbe stata migliore.


Cavarte dal fredo

D’Amico ha descritto magistralmente l’umida vita di ordinaria povertà che si svolgeva nei quartieri periferici di Venezia, l’esodo massiccio dal capoluogo veneto verso la terraferma che spopolò per decenni la città, le frequenti alluvioni (la cosiddetta “acqua alta”), specialmente novembrine. Molto di quello stato era risultato di una politica degli alloggi e del lavoro incentrata unicamente sul turismo come fonte di massimo guadagno a tutti i costi. Niente di nuovo, purtroppo. Più della celebèrrima “Venezia” di Guccini (il cui testo però è di Gian Piero Alloisio), “Cavàrte dal fredo” è la stupenda narrazione poetica dell’ordinario degrado mentale e fisico della città lagunare (in questo caso eravamo nel 1966).

E’ stata in seguito ri-arrangiata e interpretata anche dai Calicanto nel loro cd “Carta del Navegar Pitoresco” (1992) con l’omissione però delle strofe 2 – 6 – 7 e qualche leggera variazione di testo.

CAVARTE DAL FREDO
Cavarte dal fredo, da l’umidità
dai muri bagnài, dal leto gelà
portarte distante, fora de qua
donarte una casa, la comodità.

Tre stanse col bagno e ‘l termosifon
e tanta aqua calda che la vien co’ ti vol
scaldarte i pie, scaldarte le man
xe longo l’inverno, no basta el me fià.

Se buta siroco, vien ‘vanti l’istà
e fora in laguna se sente cantar
turisti va in piassa, al Casinò
Cipriani fa schei, mi no ghe n’ò.

I vien par tre mesi a fotografar
colombi che svola, palassi sul mar
comprè cartoline che schei no ghe n’è
turisti da culo che schifo che fè.

Torna novembre, bate le tre
in leto strucài bevemo un brulé
xe fredo, xe aqua, xe tuto alagà
e semo più fondi de un ano fa.

Soto la tola un metro de mar
te sciopa la gola, te vien da sigar
xe morta la stua, se squagia el carbon
ti piansi e i to oci xe un’altra aluvion.

Portarte distante in cerca del sol
ma ‘l sangue gh’ò fiapo, el peto me dol
novembre de bruto m’à ‘sassinà
nianca el coragio me gh’à salvà.

San Marco e i palassi i vol salvar
però i venessiani pol anca ‘spetar
i salvarà i santi, la sona industrial
Valeri Manera col cardinal,

Da Cioza a Fusina tuto va so
portarte distante dove no so
in fabrica forse i me ciaparà
‘ndaremo a Marghera, forse a Milan.

E i veci no parte, i ‘speta a morir
i mor venessiani, i mor col so vin
le vecie va a messa col sial e ‘l cocon
le mor confessàe, disendo le orassion.

le vecie va a messa col sial e ‘l cocon
le mor confessàe, disendo le orassion.

TOGLIERTI DAL FREDDO
Toglierti dal freddo, dall’umidità
dai muri bagnati, dal letto gelato
portanti distante, fuori di qua
donarti una casa, la comodità.

Tre stanze col bagno ed il termosifone
e tanta acqua calda che viene quando vuoi
scaldarti i piedi, scaldarti le mani,
è lungo l’inverno, non basta il mio fiato.

Se soffia lo scirocco, viene avanti l’estate
e fuori in laguna si sente cantare
i turisti vanno in Piazza (1), al Casinò
Cipriani (2) fa i soldi ed io non ne ho.

Vengono per tre mesi a fotografare
colombi che svolazzano, palazzi sul mare
comprate cartoline che soldi non ce ne sono
turisti da culo che schifo che fate.

Torna novembre, battono le tre
a letto stretti, stretti, beviamo un brulé (3)
è freddo, è acqua, è tutto allagato
e siamo più a fondo di un anno fa.

Sotto la tavola un metro di mare
ti scoppia la gola, ti vien da gridare
si è spenta la stufa, si squaglia il cartone,
piangi e i tuoi occhi sono un’altra alluvione.

Portarti distante in cerca del sole
ma il sangue è fiacco, il petto di duole
novembre di brutto mi ha assassinato
neanche il coraggio mi ha salvato.

S.Marco e i Palazzi vogliono salvare
però i veneziani possono anche aspettare,
salveranno i santi e la zona industriale,
Valeri Manera (4) col Cardinale.

Da Chioggia a Fusina tutto va giù
portarti distante,dove non so
in fabbrica forse mi prenderanno
andremo a Marghera, forse a Milano.

E i vecchi non partono, aspettano a morire
muoiono veneziani, muoiono con il loro vino
le vecchie vanno a messa con scialle e crocchia
muoiono confessate, dicendo le orazioni.

le vecchie vanno a messa con scialle e crocchia
muoiono confessate, dicendo le orazioni.

NOTE – traduzione italiana e note a cura di Flavio Poltronieri –
(1) San Marco, naturalmente!
(2) Giuseppe Cipriani, nato a Verona nel 1900, fu l’imprenditore che da un vecchio deposito di cordami nelle adiacenze di piazza San Marco, creò a Venezia l’Harry’s Bar e in seguito il prestigioso Belmond Hotel Cipriani alla Giudecca
(3) In Veneto il brulé è preparato scaldando il vino con l’aggiunta di cannella e chiodi di garofano
(4) Industriale genovese, di nobili origini, trapiantato in Laguna, ideatore di Porto Marghera, fondatore anche del Premio Campiello

Alberto D’Amico nell’LP “Ariva i barbari”, 1973
Calicanto

Una sabida di sera

Giorgio Ferigo, musicista fondatore del Povolâr Ensemble (1977-1988), poeta e traduttore in friulano di Brassens, ex lavoratore metalmeccanico ed ex direttore del Museo Carnico delle Arti Popolari di Tolmezzo, laureato in Medicina e Chirurgia, ha amato molto la sua terra e la sua comunità. La Carnia, tra i monti aspri d’Italia, Austria e dell’allora Jugoslavia: 40.000 abitanti, 40.000 emigranti. La canzone è inserita anche in un sentito cd-omaggio di Nadia Fabrizio dal titolo “Emigrant” (2013) edito dalla sempre meritoria Nota di Udine, a cura di Valter Colle.

UN SABIDA DI SERA

A riva la coriera, chê das siet, e a discjama i pendolârs
l’animazion a impia cjâfs e pląca e po a si studa denti a un bar
e a si pant il scampanot pal Perdon-dal-Rosari
o par cualchi sant dismenteât
e un berli al clama da lontan a cena un frut ritardatari

Tal frêt di una zornada ch’a si scurta già a s’impìin i lusȏrs
cul sigaret in bocja un al va a i siei lêgris o malamôrs
cualchidun al è già cjoc, cualchidun a lu sarà
e al cîr coragjo o vojas
denti l’alcol o confermas a rispuestas c’al sa già

Chest al è un sabida di sera un cualuncue al gno paîs
cuant ch’al riva atom e al è dificil restâ achì e restâ vîfs
students e migrants a son lâts e al taca il timp da pazienza
finida l’estât e la vita
a taca la soravivenza par chei pȏcs ch’a son restâts

E alora m’invìi cjantuçant viers un taulin di ostaria
i speri ch’a si fasi encje usnot una precaria conpania
e spietant un ch’al mi va a gjenio
i torni a lei il Gazetin
i ordeni l’ultim dai cafès o pȗr il prin di un’âta serie di taiuts di vin

Il sitiç dai dîs al passa e al mostra ducj i nestis îrs
i pos metiju in riga e contâ come s’i fos un resonîr
e i m’incugùi devant il gno ingòs
o devant un televisôr/e cu las mans intai cjavei i mi piert devȗr mitos leteraris o cjargnei

Bloom al pelandrona pal cumun dal Negro fint in Tomasin
e al cjata Stephen – ch’al è Stjefin – coronât bielgià da cualchi tai di vin
e i tabain di comunismo, di rognas ch’i gratìn bessȏi
di rivoluzions ch’i no vin fatas
di Joyce, di fantatas, dal BMW 1102

E a rivarà doman un’âta di cu la sô mîl e i siei colôrs
e l’ilusion crevada a lascia il puest a una ilusion miôr
e a rivarà un’âta sera
cul so fruiât arint
sarìn bessȏi tancu prin in chest pâis ch’al mȗr di muart lenta, como la sȏ int

Par vivi achì d’invier al coventa un coragjo disperât
no sta muardimi il scus dal gno cȗr par savê s’i lu ai cjatât
e a tì ven voja di fuî
di lâ a ceri cuissà ce
ma tu sâs di no vê scampo e che la vita da âtas bandas diferent a no è

Però di un’âta banda un vecju al mȗr nomo s’al sbeghera un frut
la vita a continua a intramà i siei fì di biel e brut
e se un leamp al si creva
tu lu vais como ch’a si ȗsa
ma achì a si crevin cent leamps e alora al è un paîs intîr ch’al cambia di mûsa

Al è un pâis intîr a niçulâsi inta sȏ rasegnazion
a crodi tal clip e tal sigȗr dal so spolert e dal so porton
e se tu, fruta foresta
tu leis di un ch’al si è sbarât
no sta a crodi cuissâ ce – a è la vita quotidiana cha lu à copat.

https://youtu.be/1EgajvC5Kx0

Nadia Fabrizio Emigrant (Nadia Fabrizio a cjanta Giorgio Ferigo) 2013

UN SABATO DI SERA
Arriva la corriera delle sette, scendono i pendolari
l’animazione accende teste e piazza e poi si spegne dentro un bar
e si spande lo scampanio per il ‘Perdon’ del Rosario
o per qualche santo dimenticato/ e un grido chiama a cena da lontano un bambino in ritardo

Nel freddo di una giornata che già si accorcia già si accendono le luci/ con la sigaretta fra le labbra qualcuno si avvia verso i suoi allegri o tristi amori/ qualcuno è già ubriaco, qualcuno lo sarà e cerca coraggio o voglie
nell’alcool, o conferma a risposte che conosce già

Questo è un sabato sera, uno qualunque al mio paese
quando arriva autunno, ed è difficile restare qui e restare vivi/studenti ed emigranti sono partiti e inizia il tempo della pazienza finita l’estate e la vita,
comincia la sopravvivenza per i pochi rimasti

E allora mi avvio canticchiando a un tavolo d’osteria
spero che si riunisca anche stasera una precaria compagnia/e attendo qualcuno che mi va a genio
rileggo il Gazzettino
ordino l’ultimo caffè oppure il primo di un’altra serie di bicchieri di vino

La segatura dei giorni passa e mostra tutti i nostri ieri
potrei allinearli e poi contarli come un ragioniere
e mi accoccolo davanti alla mia angoscia
o davanti ad un televisore
e con la testa tra le mani mi perdo in miti letterari o carnici

Bloom bighellona per il comune, dal ‘Negro’ fino in ‘Tomasin’/e trova Stephen, che è Stefano, già incoronato da qualche bicchiere di vino
e parliamo di comunismo, di rogne che ci grattiamo da soli/di rivoluzioni che non abbiamo fatto
di Joyce, di ragazze, del BMW 1102

E domani arriverà un altro giorno, col suo miele e i suoi colori/l’illusione spezzata lascerà il posto ad una illusione migliore/e arriverà un’altra sera
col suo gualcito argento
saremo soli come prima in questo paese che muore di morte lenta, come la sua gente

Per vivere qui d’inverno serve un coraggio disperato
non mordermi la buccia del cuore per sapere se l’ho trovato/e viene voglia di scappare
di andare in cerca di chissà cos’altro
ma sai di non avere scampo, e che la vita in altri posti non è diversa

Però in un altro posto un vecchio muore soltanto se vagisce un bambino
la vita continua a tessere la sua trama di bello e brutto
e se un legame si spezza
lo piangi come d’uso
ma qui si spezzano cento legami, e allora è un paese intero che cambia faccia

È un paese intero a cullarsi nella sua disperazione
a credere nel tepore e nella sicurezza del suo spolert(1), del suo portone/e se tu, ragazza straniera
leggerai di uno che si è sparato
non cercare chissà quale motivo, è la vita quotidiana che lo ha ucciso.
NOTE
(1) Cucina-stufa a legna tipica friulana.

Assolutamente senza polemica vorrei osservare che se “Un sabida di sera” l’avesse cantata Guccini nel suo periodo più ispirato (quello del “Pensionato” per intenderci) lo avremmo tutti poeticamente incensato (lo stile era proprio quello).

Francesco comunque ha composto la sua altrettanto spietata descrizione della quotidianità nel disco “Stanze di vita quotidiana” (1974).

Francesco Guccini -Canzone della vita quotidiana

[1] I Celti non concepivano mondi divini e mondi umani, alti e bassi, erano rispettosi dell’autorità solamente quando era stabilita dalla genetica primitiva.

[2] Temo che sarebbe toccata una pessima fine a tutti coloro che dentro folkloristici cerchietti magici, si radunano qui al nord in camicie verdi agghindate a guisa di celti, corna in testa e salamelle in bocca, a riempire ampolle sacre con le innocenti acque del fiume Po. Una volta addirittura, all’inizio della primavera del 1990, fu organizzata su un palchetto sgangherato la “Woodstock del popolo padano” e un’altra nel 1998 un ex sindaco milanese si improvvisò druido per celebrare all’aria aperta il “matrimonio con rito celtico” di un alto dirigente politico (che è ancora oggi un ministro del governo italiano in carica).

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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