Dopo la “primogenitura” di Glenmor, venne Gilles Servat che a Nantes nel luglio del 1972 quando compone la sua prima canzone-manifesto “Ki Du”, nel testo lo cita apertamente. In Bretagna in quel periodo si trattava ancora della distruzione di una cultura, di una comunità, di una lingua. Quella lingua Servat non l’aveva mai parlata, non la conosceva.
Gilles Servat è nato a Tarbes, nel dipartimento degli Alti Pirenei da due genitori di Nantes, l’infanzia la trascorse a Cholet, al confine della Vandea. Ma evidentemente la Bretagna non fu per lui solamente una terra d’adozione. Il linguaggio utilizzato in Ki Du è estremamente semplice e spoglio ma il testo della canzone trabocca letteralmente di idee. Quella lingua, giorno dopo giorno gli stava sparendo davanti agli occhi, irrisa nei bar e nelle scuole e calpestata con precisa e implacabile volontà dalle suole dell’educazione francese. Lui invece si riconobbe in essa, nel suo modo di approcciarsi alla realtà, con una specie di rispetto lontano e non smetterà mai di farlo.
I Ki du! Chien noir Compagnon Je sens passé dans tes chansons Le vent noir sur la lande blanche J’y entend sonné dès dimanche Tintent les pintes de Guinness Cri d’Irlande, chante l’ivresse Que se lève la vague bretonne Comme s’est levée l’irlandaise Que la tempête soit mauvaise Et que cette fois soit LA BONNE! Le vent d’ouest portera l’Ankou Nous irons au bout de nous même De nous même nous irons au bout Et nous mourrons vivants quand même! II Rebelle Liberté REFUSONS refusons de ne pas être SOYONS Soyons des Dieux purs et impurs purifions nous dans la souillure Semons nos coeurs dans le fumier Mettons l’hermine dans les clapiers Que nos corps aiment nos esprits Qu’ils ignorent à jamais la honte Qu’ils soient comme une grêve unie Ou la marée descend et monte. III Soyons des héros sans devoirs Des immoraux chargés d’espoirs Nous ne donnerons pas l’exemple Nous serons sourds aux lois des temples Nous venons porter témoignage Des pluies des vents et des orages Nous venons refuser raison Nous venons dire: “JE SUIS BRETON!” IV Je suis breton en vérité Je réclame mon identité Au nom des sourds et des muets De ceux qui n’osent pas parler Au nom des morts dans la misère sur les richesses de leur terre Au nom des exilés épaves qu’on vend sur les marchés d’esclaves Au noms des travailleurs en grève Au nom des luttes et des rêves JE RÉCLAME V Rocher et lande Les vallées les branches et les bandes L’écume quand l’océan s’agite Les marées le sable de granit Je réclame des chiens Nos frères L’herbe couverte de poussiére Les chemins les arbres d’automne L’orage dont le tonerre resonne Je réclame Les gouttes de la pluie L’aubépine les saisons enfuies La somme des moissons passées Les équinoxes escamotés Les solstices d’hiver et d’été Le temps que l’on nous a volé Mon identité Je réclame ma liberté JE PROCLAME VI Liberté Rebelle Je refuse Nous venons dire: “JE REFUSE!” Je refuse l’ordre du dehors Du froid marbre et des canons d’or Je refuse l’ordre public ou militaire ou catholique Nous sommes bretons et déserteurs Délinquants et saboteurs Nous sommes la terre et la mer -Glenmor (1)- Terre et mer Barde qui passe sur la route Arrête toi pour écouter nos doutes Puisse cet échange nous émouvoir Nous rendre l’ardeur de combattre Touche nos coeurs et fais nous voir Fais renaître le feu dans l’être Que nous puissions nous reconnaître Nous memes ET NAÎTRE! |
Traduzione italiana di Flavio Poltronieri I Ki du Cane nero compagno sento passare nelle tue canzoni il vento nero sulla landa bianca sento suonare delle domeniche! Tintinnano le pinte di Guiness grida l’Irlanda, canta l’ebbrezza! Che si alzi l’onda bretone come si è alzata quella irlandese che la tempesta sia cattiva e che questa volta sia quella buona! Il vento dell’ovest porterà l’Ankou andremo in fondo a noi stessi a noi stessi andremo in fondo e moriremo vivi lo stesso II Ribelli Libertà Rifiutiamo! Rifiutiamo di non essere Siamo! Siamo degli dei puri e impuri purifichiamoci nella lordura seminiamo i nostri cuori nel letamaio mettiamo l’ermellino nelle conigliere Che i nostri corpi amino i nostri spiriti che ignorino per sempre la vergogna che siano come uno sciopero unito dove la marea scende e sale… III Siamo degli eroi senza doveri degli immorali carichi di speranza non daremo l’esempio Saremo sordi alle leggi dei templi Noi veniamo a portare testimonianza di piogge, di monti e di temporali Noi rifiutiamo la ragione Diciamo: io sono bretone IV Io sono bretone in verità reclamo la mia identità! In nome dei sordi e dei muti di quelli che non osano parlare In nome dei morti nella miseria sulle ricchezze della loro terra In nome degli esiliati-relitti che si vendono ai mercati degli schiavi In nome dei lavoratori in sciopero In nome delle lotte e dei sogni Io reclamo! V Rocce e lande le vallate, i rami dei sottoboschi la schiuma quando l’oceano si agita le maree, la sabbia di granito Io reclamo! I cani nostri fratelli l’erba coperta di polvere i cammini, gli alberi d’autunno il temporale quando risuona il tuono Io reclamo! le gocce della pioggia il biancospino, le stagioni svanite la somma delle messi passate gli equinozi spariti i solstizi d’inverno e d’estate il tempo che ci hanno rubato! la mia identità reclamo la mia libertà proclamo! VI Libertà Ribelle Io rifiuto noi veniamo a dire: io rifiuto! Io rifiuto l’ordine di fuori del freddo marmo e dei galloni d’oro Io rifiuto l’ordine pubblico o militare o cattolico Noi siamo Bretoni e disertori delinquenti e sabotatori Siamo la terra e il mare − Glenmor — terra e mare Bardo che passi sulla strada fermati ad ascoltare i nostri dubbi Possano i tuoi canti commuoverci renderci l’ardore per combattere, Tocca i nostri cuori e facci vedere fai rinascere il fuoco nel focolare che possiamo riconoscerci noi stessi e nascere! |
Note
1) Il vero nome di Glenmor era Émile Le Scanve (Milig ar Skañv in bretone) continua
Ci si rende ben conto di ciò già in quel suo primo disco nel 1972, nel passaggio più tenero e malinconico della “leucémie bretonne” che già ho tradotto e proposto in “Terre Celtiche” (cf). Quando nel 1969 sull’Isola di Groix, Gilles Servat scoprì una edizione bilingue di “Ar er deulin” del poeta Yann-Ber Kalloc’h capì che avrebbe dovuto e voluto imparare il bretone, scriverlo e cantarlo, che non avrebbe mai potuto accettare la sparizione di una lingua che esprimeva un tale lirismo, capì che solo dall’ignoranza può venire l’indifferenza. Yann-Ber era nato nel 1988 e morì al fronte, falciato da una granata a 29 anni, la sua straordinaria poesia “Me zo ganet e kreiz ar mor” è interpretata sia da Gilles Servat che da Alan Stivell, entrambi nel loro disco d’esordio, oltre naturalmente che da molti altri.
Un modo di pensare ha sempre bisogno di una terra per nascere e questa terra non si può gustarla se non si sa niente della poesia che la descrive. Gilles Servat proprio grazie alla lingua bretone ebbe in seguito la sua totale presa di coscienza di quello che la Bretagna significava per lui ed è una presa di coscienza per necessità non per convinzione.
Il testo di Ki Du ne rende perfettamente conto: è il canto delle profondità di una miseria piena di infamità e pertanto colmo di una volontà di alzare la testa, che nulla e niente può arrestare. La Bretagna è una terra di leggende ovunque ti giri, su Enès Aganton (in francese Ile Canton) ci sono due croci di granito che distano 150 passi l’una dall’altra e che ogni sette anni si avvicinano della stessa lunghezza di un chicco di grano, si dice che quando si incontreranno finirà il mondo. Ad Croaz Al Lew-Drez una grande croce monolitica si erge dalla sabbia, ad ogni marea viene sommersa dal mare e così facendo ogni 100 anni sprofonda della lunghezza di un chicco di frumento e un’altra leggenda profetizza che quando scomparirà del tutto nella sabbia, sarà la fine del mondo.
Col passare del tempo il discorso artistico di Gilles Servat diventerà più generale e, senza mai dimenticarla, parlerà meno direttamente della situazione bretone, le tematiche si apriranno verso l’insieme delle realtà, in una sorta di universalità. L’oceanica canzone-comizio “Je ne hurlerai pas avec les loups” scritta a caldo dopo il golpe militare filo-sovietico in Polonia nel 1981 e l’inizio del lungo braccio di ferro tra il generale Jaruzelski e il leader di “Solidarność” Lech Wałęsa, è un testo a tutto campo. Una lunghissima spoken-song che non risparmia nessuno, dalla Polonia alla repressione in Francia, dall’imperialismo statunitense alla guerra d’Algeria, dal totalitarismo sovietico ai regimi sanguinari dell’America Latina, dalla rivoluzione iraniana alla dittatura degli ayatollah, dalla resistenza afghana contro i sovietici al fondamentalismo islamico, fino al conflitto in nord Irlanda, per arrivare a concludere che “Non prenderò mai un kalašnikov per imporre le mie idee, la mia legge o il mio credo… Ho troppa paura di avere torto!”.
IL MIO PRIMO INCONTRO CON GILLES SERVAT
E’ la sera di sabato otto giugno millenovecentottantacinque, St. Brieuc, decima edizione della Fête du Peuple Breton, “Gouel Pobl Vreizh” come dicono da queste parti, qualcuno richiama la “collera bretone” nel presentare dal palco Gilles Servat, che tutti amano smisuratamente. Domani, ho appuntamento a pranzo a casa sua a Nantes, dall’altra parte della Bretagna. Intanto stasera mi sono divorato una quantità impressionante di sidro e di flan alle prugne (Far Breton), una torta di crema densa di latte, panna, farina e zucchero con sul fondo prugne secche. Mai sentito niente di più delizioso! La fest-noz continua e nella confusione di biniou e bombarde ho dietro le spalle sei sikus che suonano tutti insieme (i Bolivia Manta, in cartellone domani) e davanti i Kornog, reduci da un trionfo americano e tutti a danzare gavotte, hanter-dro e quant’altro. Direi che la “collera bretone” in verità si è un po’ annacquata, la voce di Gilles però è potente e quando intona An Eostig Toullbac’het mette i brividi. A quell’epoca non conoscevo questa canzone che segnava l’apertura di “La liberté brille dans la nuit”, il suo quarto LP, l’unico che mi mancava, raro, nessuna traccia sulle liste e nei negozi, fuori catalogo, introvabile perciò fatalmente destinato ad essere ancora più affascinante. Glielo avevo comunicato per lettera qualche settimana prima quando ci siamo accordati per un incontro. Durante il viaggio al mattino, riascoltiamo la cassetta con la registrazione del concerto della sera prima e la melodia di quella canzone sconosciuta mi entra nel cervello. Mi entra in testa e non va più via. Capisco e non capisco le parole. Ma non è importante, mi tocca l’anima. Lamballe, Montauban, Rennes, Grand-Fougeray, Nozay, Nantes. Appena entro nella sua casa, noto che ha già preparato sulla tavola una copia dell’LP per me, la copertina è bellissima ed è la riproduzione in foto di un piccolo arazzo fatto a mano che campeggia in originale sulla parete bianca della stanza. Mi dona anche il suo ultimo disco “La Douleur d’Aimer” con tanto di dedica (le dediche sulle copertine non le sopporto, ma mica posso dirlo!), mi spiega che è una auto-produzione, la registrazione di uno spettacolo del dicembre precedente nel quale figura anche “La Ballade De La Centrale” con le parole degli anti-nuclearisti di Carnet e che numerose metafore nei testi richiamano l’opera di René Guy Cadou. Mi rivela che sua madre Renée è stata allieva del padre del poeta, Georges, nella scuola di Sainte-Reine-de-Bretagne e ha quindi conosciuto René Guy da bambino. Questi intrecci poetici e di vita naturalmente influenzeranno la mia percezione dei testi di Cadou cantati da Servat. Vedo anche una grande arpa e lui mi dice che sta imparando a suonarla. Nei dischi a seguire comunque non ce ne sarà traccia dunque si può dedurre che sia rimasto un piacere del tutto amatoriale, di cui peraltro non ha mai fatto cenno pubblicamente. La sua gentilezza è commovente, infatti mi ha fotocopiato i testi delle canzoni contenute nel disco dagli originali dattiloscritti….io per sdebitarmi, oltre ad avergli portato le versioni in italiano di tutto il suo canzoniere fino ad allora, gli traduco “Radici” di Francesco Guccini che lui non conosce e che, che in quel momento, mi sembrava il cantautore italiano in qualche modo a lui più affine…
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