Yvon Le Men: Voglio un linguaggio manuale di cui gli uomini si servano quando sono malati

Yvon Le Men
Yvon Le Men

Ascolta il canto dei costruttori di cattedrali
Le loro voci murano le finestre dei nostri cuori
Le loro mani ci mostrano i relitti di castelli di sabbia
Si inginocchiano alla marea
Implorano la principessa vestita di schiuma
Perch’ella torni dal nuovo mondo
A raccontarci le storie che fanno addormentare in piedi contro la vita
Contro la vita, con l’Amore!”

Yvon Le Men, l’ultimo poeta di fine secolo scorso, nacque poverissimo nel 1953 in un villaggio di cinque case in pieno Trégor, poco distante da La Roche-Derrien, da un cantoniere ausiliario e da una sarta. Il nonno propose di chiamarlo Yvon per proteggerlo attraverso le qualità di Saint Yves e il bambino credette a lungo che non sarebbe mai diventato grande, sarebbe sempre rimasto il figlio di Yves. E’ questa la forza dei nomi, come per gli Indiani d’America: l’uomo muore, la storia continua. La famiglia Le Men abitava al limite dell’estuario, il mare era a soli dieci chilometri ma per arrivarci avrebbero avuto bisogno di un’automobile. Il 27 settembre 1965 quando Yvon aveva dodici anni, il padre morì e la povera donna rimase sola con quattro bambini, toccò a lui prenderne il posto a tavola, vivere come un giovane adulto e iniziare dall’età di quindici anni a lavorare. Ma nonostante il disincanto o forse proprio grazie a quello, raggiunti i vent’anni Yvon fa una scelta ancora più coraggiosa, opta per un mestiere alquanto improbabile: il poeta. Siamo all’inizio degli anni ‘70, il momento delle grandi utopie mondiali, della fantasia al potere e lui vive la sua età più ardente e assetata proprio in un’epoca ringhiosa e in una Bretagna che rifiuta la Francia, impegnata in una montante protesta contro uno stato accentratore, liberticida e non riconosciuto. Sale sui palchi a recitare le sue poesie durante gli scioperi, alle assemblee, davanti a degli operai di quaranta, cinquanta anni, gli stessi della sua infanzia, quelli che avevano le mani tre volte più grandi delle sue. Potrebbe esser loro figlio, è bellissimo, ha i capelli lunghi, è magrissimo, pesa appena 45 chili. Integra la poesia al combattimento quotidiano, con lui la generazione di fine ventesimo secolo rinnova la tradizione bardica dei popoli celtici: “…contro i vampiri del mondo libero che moriranno domani, io canto per l’Africano nato in questa mietitura di popoli neri, nobili e neri; tu porti sulle spalle una storia particolare…laggiù in mezzo al tuo popolo non c’è bisogno di parlare francese…io canto per il contadino algerino dei Monti d’Aurès, manovratore alla Pouteau, negli edifici di Rennes, operaio-robot alla Renault…nato nel 1954, un giorno di novembre. Lavoratori bianchi, lavoratori emigrati, soldati di Verdun, inghiottiti nelle fosse di Maréchaux…” E loro lo ascoltano in silenzio e lo applaudono. Il loro ascolto, dirà in seguito “mi salvò…mi ricompensò della solitudine della scrittura”.

Non è un musicista (nemmeno dilettante) ma l’incontro con gli altri utopisti di Névénoé, si rivela un momento cruciale per la sua arte “Ascoltate la musica, le corde vocali si bilanciano alle stelle, il cielo si riversa dalla mia bocca, aprite le braccia e le finestre, tappezzate la viuzza dei quartieri di luna…andate fino in fondo ai tamburi a cercare il primo grido…” La sua passione comunicativa e radicale, i suoi, talvolta ingenui ma luminosi di sincerità, canti d’amore pieni di disperazione, producono nel 1975, anche un primo disco (il quinto prodotto dalla Cooperativa). Sulla copertina Yvon pare un nativo o un Jim Morrison bretone, la sua poesia impreca e invoca, i suoi amici musicisti sono tutti presenti: Gérard Delahaye al violino e alla chitarra, Melaine Favennec tanto al violino come all’harmonium, Kristen Noguès all’arpa, Gildas Beauvir all’harmonium, Annkrist alla voce. Tutti salmodiano in lugubri cori, i suoni talvolta sono sincopati, dissonanti, ossessivi, ripetitivi (Persian Surgery Dervishes del sommo Terry Riley è solo di tre anni prima), le spirali dei tamburi sono funebri mentre i pizzicati dei violini evocano il mondo della tradizione. I temi dei testi sono l’alcool, il ruolo sociale, il sesso, la rivoluzione. “Non è vero che siamo in un tempo di pace”, evocano talvolta Léo Ferré. Un momento davvero toccante è “Vivre”, canto di lotta politica ma anche canto in trance di qualcosa che dal di dentro lotta, spinge per uscire, per credere e per vivere, con la sola, spettrale arpa di Kristen Noguès a disegnare una liturgia altissima ma non indirizzata al cielo, quanto piuttosto ad una rivolta metafisica di nuvole spoglie “io non sono rivoluzionario, io vivo, vivo”.

Durante gli avvenimenti di Plogoff, reciterà i suoi versi davanti a migliaia di persone, nella notte tra il 24 e il 25 maggio 1980, accompagnato dai musicisti del mitico gruppo Gwendal: “un uomo muore da qualche parte…c’è sempre troppo da mangiare sulla tavola ma l’oste non viene perché ha paura…di un paese aperto come un regalo voi avete fatto un campo di mine…un bambino nasce da qualche parte…la terra cerca il grano e l’uomo sale sulla schiena della primavera a piantarlo…quale sia l’odore della tua pelle o il colore del tuo paese, vivere la propria vita in pace è necessario per esser liberi, abbiamo abbastanza da fare con un’unica questione: la nostra solitudine sulla terra e sotto il cielo, con il vento e contro le onde. Domandiamo il tempo d’andare alla fine del viaggio, al paese della nostra ombra dove vive il sole e se ciò non sarà possibile ci separeremo da voi, noi siamo di un altro mondo ma i nostri boschi e i nostri oceani sono comuni: – togliti dal mio sole – disse il mendicante all’imperatore. E lui si tolse.

Nel corso di recite a vocazione multi-biografica, il suo corpo registra gli scossoni e le eruzioni del testo, ausculta i furori, sismografa la rabbia, lo sguardo scruta l’inquietudine minacciosa, gli occhi descrivono i geroglifici e i calligrammi incisi nei segreti della carne delle parole. La sua figura è tenera ed angosciata, tragica ed esaltata, la sua paura viene descritta, analizzata e restituita in un territorio verbale, denso di sobrietà e talento. La sua alchimia di versi insegue l’utopico sogno di una vita che permetta agli alberi d’avere infine foglie a forma di poesia sopra i rami. Xavier Grall parlerà di lui come di “un fiore del Maggio ‘68, al pari di Dylan Thomas, cugino del Paese del Galles”. La sua è un’opera barocca di rivolta sempre al limite della celebrazione, i versi che seguono mi ricordano la Giovanna d’Arco* descritta tanto mirabilmente da Leonard Cohen nell’omonima canzone che chiude “Songs of love and hate” dove la Pulzella è colta nel supremo momento del supplizio: “Il nostro amore immediato è come un vecchio riflesso quando l’incendio illumina la prateria, tu sei il fuoco, io sono la pianura, tu mi attiri, mi bruci, io scappo da te, tu devasti il mio corpo e le mie ferite si vedono davanti alla luce dei tuoi occhi. Acque e sangue mescolati bussano alla porta, arriverà la nave che ci farà passare l’orizzonte.

All’inizio fu un torrente di collera e tenerezza, la Bretagna era un paese da troppo tempo abbandonato ai suoi venti e alle sue maree, un paese di ceneri, di piogge, di miseria e dimenticanza, un paese di vedove senza amore. Nelle vene di Yvon Le Men scorre sangue comunardo ma sono presenti anche gli echi di Vladímir Majakóvskij e di Nazim Hikmet**. Nessun intellettualismo, come loro non è un soldato in più della guerra del linguaggio, un altro dei tanti semplici difensori dell’impero della parola scritta. Piuttosto semplicemente un giovane uomo innamorato dell’esistenza “…lei è meravigliosa, la vita, bilancia notte contro giorno, nuvole dietro la schiena per riposarsi, ali nelle mani…” e il cui cuore si tendeva “come un arco a caccia di melodie…”, un giovane uomo segnato da un’infanzia mancata e sconsolata: “Ho imparato a leggere nelle tue mani, il granito ricercato al posto della dolcezza, sennò, casa mia, come potrei abitarti senza inquietudine? Ho imparato a leggere nei tuoi occhi, la bruciatura della stoffa al posto della luce, sennò, mantello mio, come potrei indossarti senza vergogna?

Risiede a Lannion ed è rimasto sempre, ed è a tutt’oggi, poeticamente attivo.

“…La poesia ascolta alle porte, alle porte di Rennes, a Maurepas, alle porte della Bretagna, a Coglais, in città, in campagna…”Ma tu non vai da nessuna parte” mi dice quest’uomo “Non esiste nessuna parte” gli rispondo. Lui vede solo attraverso il centro, non importa quale centro, basta che non sia mai la periferia dove vivo e dove vado…”

Per chi volesse approfondire, due pubblicazioni a mia cura:
* La Contessa del Giglio
** Nazim Hikmet: Quando la poesia è musica con parole rivoluzionarie

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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