Memorie del nobile veliero Tusitala ultimo Windjammer americano (narrate da lui stesso)

For nearly ten years my health had been declining; and for some while before I set forth upon my voyage, I believed I was come to the afterpiece of life (……) and [I] reached Samoa towards the close of ’89. By that time gratitude and habit were beginning to attach me to the islands; I had gained a competency of strength; I had made friends; I had learned new interests; the time of my voyages had passed like days in fairyland; and I decided to remain.(…..) If more days are granted me, they shall be passed where I have found life most pleasant and man most interesting (1)

(Robert Louis Stevenson )  
Tusitala dipinto di Joseph Arnold
Tusitala, anni ’30. dipinto di Joseph Arnold
Fonte: laststandonzombieisland

Mobile (Alabama), Primavera 1948.
Si crede che il romanzo del mare sia finito, perché oggi l’uomo è diventato così incline al materialismo che nulla più riesce a entusiasmarlo. Dopo oltre sessant’anni di frequentazione di questo mondo, (un rapporto, peraltro, ormai giunto al suo compimento, ché  ridotto a rottami, sono pronto per l’altoforno), mi chiedo se sia davvero così. Se per Honoré de Balzac, gli ideali di perfezione della bellezza sono rappresentati da una donna che danza, da un cavallo al galoppo e da una nave a vele spiegate sotto un buon vento, e per Richard H. Dana un veliero costituisce ”il più splendido oggetto in movimento esistente al mondo”, l’umano  consorzio non è ancora giunto ai livelli di grettezza, indifferenza e cinismo, quali vorrebbe far intendere la precedente affermazione.
Di tutte la navi con cui l’uomo si è avventurato sul mare, probabilmente nessuna possiede l’aura da cui è circondato il clipper(2), sinonimo dei giorni più straordinari della vela. Giorni brevi, purtroppo, quelli de “i grandi uccelli dei Capi” che “sfiorando appena le onde” portavano velocemente a destino i loro carichi pregiati; giorni che, sfortunatamente. rischiano di essere rapidamente dimenticati. Pur non essendo stato partecipe dell’epopea dei clipper, posso tranquillamente smentire l’affermazione che nulla più ci possa appassionare.
Quando iniziò la mia storia, purtroppo, il loro tempo era definitivamente scaduto, sopraffatto dalla concorrenza del vapore, e nacqui come “carrier” per il trasporto economico di carichi rilevanti, quasi un cavallo da lavoro rispetto a quegli eleganti purosangue. Non un brutto anatroccolo, però, ché quando entrai nel cantiere di demolizione i giornali, manifestando il loro rimpianto per la perdita dell’ultimo trealberi mercantile americano, a causa del mio aspetto particolarmente curato, spesso  mi scambiarono per un vero clipper.

[IL VARO del Inveruglas: 9 settembre 1886]

Ebbi il mio abbraccio dal mare giovedì 9 settembre 1886, tra le nebbie della Scozia, “full rigged ship” o trealberi armato a nave, con doppie gabbie, velacci e contro (Fig,1). A quel tempo battevo bandiera britannica e, a poppa, portavo il nome Inveruglas, località a nord di Grenock (Scozia), sul ramo settentrionale del Loch Lomond. Gli armatori, Mc Gregor & Son. di Grenock, mi adibirono ai viaggi con l’Australia, per il trasporto degli emigranti e della lana, sulla rotta di Capo Horn.
Trascorsi così tre anni impegnato in questi traffici, sempre sotto il Red Dust (Straccio Rosso, nomignolo affettuoso della bandiera mercantile britannica), fin quando fui  acquistato dalla Sierra Shipping Ltd., degli armatori Thomson, Anderson & Co. di Liverpool, che mi rinominarono Sierra Lucena. Al comando del capitano P. Murdoch, continuai ad alternare il trasporto di passeggeri e merci – in particolare la juta – tra la Gran Bretagna e l’India. Nel 1889, in  viaggio tra Tyne e Sidney, il carico di carbone prese fuoco e quasi costrinse il capitano, che a bordo aveva la moglie, ad ordinare l’abbandono nave. Per fortuna riuscimmo a riparare a Capetown, dove l’incendio poté essere domato.
Continuai su quelle rotte fino al 1904, anno in cui passai alla Christian Nielsen & Co. di Larwik, sotto bandiera norvegese, con il nome di Sophie, capitani Christian Farup e, successivamente Frithjoft Host. Nel 1916, rimanendo di bandiera norvegese, fui acquistato dalla compagnia Vegger & Ohre, di Sanderfjiord, capitano Hans Mikkelsen, un uomo che rimase a lungo con me e di cui si parlerà ancora. Nell’anno successivo, mentre ero impegnato nel trasporto di grano argentino  in Europa, entrai in collisione con una petroliera americana nel Rio della Plata. Ebbi la prora gravemente danneggiata, perdendo la polena, ma dopo le riparazioni, potei riprendere servizio nel trasporto di carbone tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Fig. 1  L’Inveruglas nel 1884. Notare la polena perduta nel 1917 nel Rio della Plata –
Fonte: laststandonzombieisland
INVERUGLAS
Costruito a Greenok, in Scozia, ultima costruzione del cantiere di Robert Steel & C., per conto degli armatori Mc Gregor & Son.
Scafo metallico di dimensioni: 230′ 4”x 39′ 0”x 23′ 5” (m 70,2x 11,9x 7,13)  Stazza lorda tons (*) 1746, netta tons 1648, sotto coperta  tons 1622.
Inscritto nel British Register al No. 87394 con il nome di Inveruglas e nominatico PGVL
(*) da 2,832 metri cubi.

[IL DISARMO]

In seguito alla crisi dei noli del dopoguerra, dal 1921 rimasi in disarmo ad Hampton Roads (3), in vendita, senza altre prospettive che non fossero le più fosche.
A questo punto, il bilancio di quarant’anni della mia esistenza, poteva definirsi in ogni modo tranne che entusiasmante. Durante quegli anni ero stato un onesto, grigio e anonimo lavoratore del mare: arrivi, partenze, carichi talvolta pericolosi, talaltra sgradevoli, qualche incidente ma, nel complesso, nessuna vera emozione.
Nulla di eccitante da ricordare, se non qualche menzione nella cronaca dei giornali locali (rubrica arrivi e partenze), ma certamente nessuna nella Storia: il mio nome, forse troppo spesso mutato, era del tutto ignoto al grande pubblico. Dopo aver trascorso nell’ombra, ventuno anni sotto l’Union Jack e diciannove sotto la bandiera norvegese, mi trovavo qui, accantonato come rottame da demolire, rassegnato a terminare i miei giorni nel più assoluto anonimato e senza che di me rimanesse alcun ricordo. Banale ma vero, le navi hanno un’anima, e la mia era particolarmente amareggiata.  


Per incoraggiare il lettore che, tediato dalla precedente sequela di nomi, fosse intenzionato ad abbandonare il racconto, posso anticipare che il destino, ad onta di tali premesse, aveva predisposto per me un finale diverso; che, in altre parole, per me non era ancora finita. Dopo due anni di abbandono nello squallore di Hampton Roads, fui notato da due scrittori: il giornalista Christopher Morley (l’autore di Thunder on the left e molti altri romanzi) e Felix Riesemberg, capitano marittimo e scrittore, entrambi membri del “Three Hours  for Lunch Club” di New York.

THREE HOURS FOR LUNCH CLUB

Il Three Hours Club era  fondato e sciolto prima e dopo ogni riunione, dall’animatore Christopher Morley. Uno dei parecchi Club che Morley doveva fondare negli anni, incluso il Baker Street Irregulars negli anni ’30, che esiste ancora oggi, il Three Hours era il più vivace degli anni 1920-25. I membri fluttuavano in funzione di quello che succedeva in città, ed includevano gli amici della carta stampata di Morley, capitani marittimi e chiunque altro Morley considerasse “kinspirit”.

Le occasioni di accrescere il numero dei  membri presumibilmente aumentavano se i richiedenti fossero amanti del buon cibo, della “birra & gazzosa” (shandygaff), e dell’ottimo tabacco. Un altro requisito per diventare membro, era l’assuefazione agli scherzi, un’opportunità per dimostrare la propria intelligenza. La personalità magnetica di Morley e il suo spirito arguto si confrontavano con quelli degli altri membri del Club e negli anni, la crescita della fama del gruppo tra i letterati di New York, era dovuta non poco alle frequenti descrizioni delle riunioni del Club riportate nella rubrica del suo giornale Bowling Green (campo da bocce). I pranzi potevano avere luogo in posti diversi come l’Algoquin Round Tables, le taverne del Greenwich Village, eleganti ristoranti del centro, tavole calde delle stazioni ferroviarie ed anche a bordo della nave Columbia, ospiti del socio David William Bone.
Il Club, di cui Morley era fondatore e animatore, era composto da una pleiade di gaudenti buontemponi: scrittori, artisti, scultori e uomini d’affari, tutti accomunati dalla passione per il mare, un sentimento da vivere con partecipazione personale.


Per designare l’affinità di spirito esistente tra i soci, Morley aveva coniato il temine kinspirit, derivato da “kindred spirit” (sensibilità condivisa), ed i sentimenti che avevano richiamato l’interesse di Morley nei miei confronti, si possono ritrovare nelle sue stesse affermazioni:
Una nave in banchina, e che nave! Una nave al molo di una città, strana visione. Come un leone in gabbia al circo. Lei, la bellezza, la leggiadra creatura che vive dell’aperto azzurro e dei grandi spazi marini, lei che ha orizzonti e pianeti come adeguata prospettiva, lei che chiede alla sua irresistibile poppa la neve e l’argento [della scia ndt], lei che segue il percorso del sole lungo le purpuree curve della longitudine, strettamente ormeggiata nello stagnante fossato di una darsena. Lo slancio verso l’alto di quella prora imponente, non è mai stato adatto a tenerla ferma contro il fondo di un molo polveroso.
Morley e Riesemberg, mossi da tali romantici impulsi, prospettarono ai soci del Club l’opportunità di un intervento diretto a salvarmi dalla demolizione, e del mio successivo recupero, al fine di poter disporre di un veliero a vele quadre per organizzare crociere con le antiche tecniche di navigazione. Pur consapevoli della debolezza della loro posizione finanziaria, per gli elevati costi di gestione che comportava l’impresa in cui si stavano lanciando, essi contavano di ottenere un sussidio dal Congresso, per aver portato sotto bandiera americana l’ultima full rigged mercantile; una speranza che, purtroppo per loro, sarebbe andata delusa.
Con queste premesse, ebbe inizio il periodo più nobile della mia storia.

continua seconda parte

NOTE
Windjammer (acchiappavento) era il nome dato dai marinai dei primi piroscafi per ricambiare il disprezzo con cui la navigazione a vela considerava quella a vapore. Il termine, (letteralmente “marmellata di vento”), si riferisce al suono tipico dei forti venti che soffiavano attraverso le attrezzature, e designava le navi a vela da carico, munite di tre o più alberi a vele quadre, progettate per lunghi viaggi a costi economici contenuti. Trasportavano carichi sfusi, come legname, guano, grano o minerale, da un continente all’altro, di solito seguendo i venti prevalenti e circumnavigando il globo
1) [Navighiamo con scafi dissestati su acque grandi e perigliose; secondo la dolorosa, vecchia ballata marinara, abbiamo udito il canto delle sirene, e sappiamo che non rivedremo mai più la terra ferma. Vecchi e giovani, siamo tutti giunti all’ultima crociera. Se c’è ancora del tabacco tra l’equipaggio, per l’amor di Dio, lo si passi in giro, ché si possa fare una fumatina prima di andare! ] (Robert Louis Stevenson (1850-1894), da Virginibus puerisque)  
2) Un clipper non era semplicemente un windjammer con tre alberi a vele quadre, benché sia opinione comune. La designazione si riferisce alle linee dello scafo e, in parte minore, alla superficie delle vele. Significa che lo scafo era lungo affilato e stretto rispetto alla media delle navi. Era fatto per la velocità, a scapito della portata.
3) Hampton Roads è una regione costituita da grandi estensioni di acque e terre ubicata nel sud-est della Virginia. E’ nota per essere un porto operativo in ogni stagione dell’anno, le cui acque non sono mai ghiacciate. In esso operano diversi organismi militari e civili,cantieri navali, moli di carico e centinaia di chilometri di coste protette.

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Pubblicato da Italo Ottonello

Contrammiraglio in congedo assoluto. Cultore delle tradizioni marinare e della vita di mare all’epoca della vela, in particolare nella Marina britannica ai tempi di Nelson. Collabora con la Rivista Marittima dal 1985.

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