Melaine Favennec: L’evoluzione della tradizione

“…il giorno non ha più importanza
la notte ancora meno
ma il tempo è ben corto nella vita vera…

Melaine Favennec è nato il 29 agosto del 1950 a Quimperlé. Suo padre fu il fondatore della Bagad Bro Kemperle insieme a Youenn Gwernig e Polig Monjarret e da quella eredità apprese giovanissimo a suonare bombarda e cornamusa prima, chitarra e il violino in seguito, imparati in maniera autodidatta. Molto precocemente, a undici anni già componeva canzoni sulla guerra d’Algeria e dai dodici, in Normandia dove nel frattempo la famiglia si era trasferita per necessità di lavoro, iniziò a scrivere per una compagnia teatrale. Quando intorno ai vent’anni Melaine Favennec tornò in Bretagna divenne il violinista dei Diaouled Ar Menez (Diavoli della Montagna), gruppo precursore della musica bretone elettrica, creato nel centro del Paese, non lontano da Carhaix, tra i Monts d’Arrée e le Montagne Nere, che, con grande successo, infiammava tutte le fest-noz dell’epoca. Rimase tre anni con loro fino all’incontro con Gérard Delahaye, Patrick Ewen e Yvon Le Men e la creazione della Cooperativa Névénoé.

Melaine Favennec
Melaine Favennec

I due dischi che ne seguiranno saranno capolavori originali di stravaganza e pudore, unici e indispensabili, le canzoni di Melaine Favennec constatano la realtà attraverso le esperienze quotidiane e contestano la società, lo spettacolo e anche se stesso. La sua è una poetica dall’espressione totale, che insegue la libertà di scrivere su un foglio bianco, senza righe o quadretti, al di fuori dei generi musicali consueti, che recupera l’energia dalla terra per ricrearsi, una canzone di fuoco misterioso, sensuale e irreale, che interpreta il non-rivelato. Le parole sono spesso difficili, triturate, maniacali, rigorose, riflettono l’urlo del diritto alla vita e lo stesso la musica, dove la melodia trova la sua strada tra la voce che, salmodiante, taglia le sillabe e l’originalità epica degli strumenti prescelti.

Melaine Favennec cerca la respirazione profonda dell’OM, insegue un grido segreto dell’uomo che lo proietti fin dove possa infine trovare asilo, le sue canzoni sono l’ortica che morde le pietra, il polso che batte il tempo, la melodia muscolare che penetra la pelle, i colori dell’aria “…talvolta su delle fontane si piange, spesso al grande sole si ride, la vita viene, la vita muore ma gli amori non hanno fine, amo la vita della più bella età e che spesso lancia dei fiori sul suo passaggio per far sognare i vecchi bambini”.

Ovunque ci sono, fortunatamente, musicisti tradizionali portentosi o innovativi delle antiche composizioni, assai più raro è trovare invece una scrittura di tradizione contemporanea che sia riconoscibile, ricordo ancora l’emozione all’ascolto di “Dans le faubourg de Ballazeux“, brano posto all’inizio del primo LP “Basse Danse“, nel quale percepii questa rara sensazione di tradizione in evoluzione (“Nel sobborgo di Ballazeux, nel sobborgo di Ballazeux c’era una gran bella ragazza lon la, c’era una gran bella ragazza, gué la ri don la ri don dé, gué la ri don la lére, sul sentiero….”). Le sue canzoni poco ordinarie sembrano annullare il tempo, i giochi ludici di parola sposati al suono di Pibroc’h diventano assolutamente seducenti, ma non siamo più in Scozia, l’accompagnamento non è più di arpa o di big-pipe e gli avvenimenti narrati non sono più quelli del XVII° secolo, qui ci troviamo nel mondo contemporaneo e gli strumenti sono harmonium, violoncello, pianoforte, bombarda, chitarra, sassofono.

Melaine Favennec, oltre che a dipingere, ama profondamente la poesia (al punto che nel 2012 consacrerà un intero disco all’opera di Max Jacob)

In questo esordio è presente anche un testo del poeta simbolista fiammingo Emile Verhaeren (“Un mattino” qui rititolata “Gioia di vivere”), scoperto a scuola come gli altri, che interpreterà in futuro: “…sono partito calmo e leggero, il corpo avvolto di vento e luce, vado non so dove, vado, sono felice, c’è festa e gioia nel mio petto…la mia anima umana non ha età, tutto è giovane, tutto è nuovo sotto il sole…amo i miei occhi, le mie braccia, le mie mani, la mia carne, il mio torso e i miei capelli sciolti e biondi e vorrei attraverso i miei polmoni, bere lo spazio intero per gonfiarne la mia forza”

Melaine Favennec – Basse Danse: Joie de vivre

La magia di Melaine Favennec prosegue con il secondo LP “Chansons simples et chants de longue halaine” (“Canzoni semplici e canti di ampio respiro”) dove si assiste ad una vera e propria musico-terapia, le canzoni sembrano avere lo scopo di piantare in ogni nostro albero l’immagine di una foresta intera, sono una corsa nell’aria salina, rivelano un corteo di orme di splendore, come sovente la musica tradizionale sa fare, dalla voluttà di un an-dro al fervore di un plinn.
Il canto ti prende alla gola, contro ogni grigiore, ti porta a danzare alla cadenza di una pulsione che arriva direttamente dal sangue e dal cuore per cercare l’equazione cosmica della comunione delle cellule, a calpestare il giorno, l’istante, la quotidianità sotto un cielo dove pioggia e lacrime mescolate passano da un viso solitario ai piedi riuniti danzanti una gavotta (“Tu la terra e io l’acqua, tu la terra e io l’acqua, amore friabile, fraterno, creta, obolo, asseta la mia forza…”).

AU GUI L’AN NEUF

In questa universalità trovano spazio anche un vecchio poema cinese (“Là il miglio tchou si curva, là il miglio tsi e le sue spighe. Io avanzo lentamente e il mio cuore è angosciato. Quelli che mi conoscono dicono – Ha un dispiacere – gli altri si domandano cosa cerco. Al cielo immenso e azzurro da dove ci vengono questi mutamenti”), come un testo rituale/cumulativo composto dopo la lettura delle parole di Alce Nero, Indiano Sioux

Melaine Favennec
Au gui l’an neufAL VISCHIO L’ANNO NUOVO
Au gui l’an neuf, au gui l’an neuf
Je te donnerai, je te donnerai
UNE journée, une simple journée de mes jours
DEUX nuits de tendresse
TROIS regards perçants volatiles dans la neige
QUATRE chevaux sellés pour le printemps
CINQ sous dorés pour lancer

en l’air dans la mer des poissons
SIX flamands roses couvant dans l’eau
SEPT noisettes et la branche pour chercher l’eau
HUIT sons frêles à la cime des arbres
NEUF étoiles dans un ciel plein de pluie
DIX doigts de la main pour tresser les caresses
ONZE paroles pour te dire que je t’aime
DOUZE mois de l’année pour recommencer
Au gui l’an neuf, au gui l’an neuf
Je te donnerai, je te donnerai”
Al vischio l’anno nuovo, al vischio l’anno nuovo
Io ti darò, io ti darò
UNA giornata, una semplice giornata dei miei giorni
DUE notti di tenerezza
TRE sguardi acuti, volatili sulla neve
QUATTRO cavalli sellati per la primavera
CINQUE soldi dorati da lanciare

in aria nel mare dei pesci
SEI rose fiamminghe covate nell’acqua
SETTE nocciole e il ramo per cercare l’acqua
OTTO suoni esili in cima agli alberi
NOVE stelle in un cielo pieno di pioggia
DIECI dita della mano per intrecciare le carezze
UNDICI parole per dirti che ti amo
DODICI mesi dell’anno per ricominciare
Al vischio l’anno nuovo, al vischio l’anno nuovo
Io ti darò, io ti darò
Traduzione italiana di Flavio Poltronieri (dal volume “Koroll Ar C’hleze” – Danza della Spada –
Raccolta di testi bretoni contemporanei – 1985)

NOTA
Per i Celti il vischio era il simbolo della resurrezione, della sopravvivenza della vita alla morte, affascinati dalla sua vita completamente aerea, credevano fosse l’emanazione della divinità sulla Terra. In Francia, la tradizione della raccolta del Vischio continuò ad essere osservata anche dopo la sua cristianizzazione, ritroviamo ancora nel XV secolo la cerimonia, detta guilanleuf o auguilanneuf   (“Au gui l’an neuf”, cioè “Al vischio dell’anno nuovo”) in cui chi raccoglieva il vischio gridava rivolgendosi alla folla “O Ghel an Heu” (” Che il grano germogli!”). Così l’acqua in cui era messo a macerare il vischio era benedetta e distribuita tra i malati e come prevenzione per attirare la buona sorte. continua [Cattia Salto]

Conclusa l’esperienza Névénoé, arriva un altro superlativo disco presso la RCA “Au secret déluge” (“Al diluvio segreto”) nel quale troviamo anche la traduzione di un testo del suggestivo poeta brasiliano Manuel Bandeira e una poesia del Premio Nobel, Saint-John Perse, (epico e vertiginoso, che, da diplomatico pacifista, la leggenda narra, nel 1938, per un pelo non venne alle mani con Hitler).
La formazione annovera anche innovativi interpreti quali Dan Ar Braz, Daniel Paboeuf e Patrick Molard, ma i nuovi suoni industriali e sintetici dei sopraggiunti anni ‘80, lasceranno ben poco spazio per questa canzone d’autore ispirata e orchestrata in maniera free. “Qualche piccola pioggia seppellisce l’estate, l’autunno arriva attraverso la mano sinistra dell’aurora, le foglie attraversano la strada simili a donnole sgomente. Io sono il brivido sotto l’inverno. Piove….il silenzio bianco, tagliente, che screpola le parole e le labbra, la più grande distanza tra due grida…”

Dopo una pausa silenziosa di cinque anni, Melaine Favennec continuerà il suo percorso cambiando definitivamente atteggiamento musicale e non si sentirà più in diritto di essere negativo sulla scena. “Tu cammini sulle tracce degli antichi mettendo il piede su ogni orma per timore di prendere il volo, non aver paura, non sei che un uomo. Cammina sulle spalle della terra, cammina a tua misura e lascia là il tuo più bell’ornamento, le tracce della tua vita, come un disegno”.

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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