La natura musicale: passaporto per l’avvenire

In Occidente le vecchie canzoni popolari inglesi, nordiche, francesi, italiane…spesso citano bucoliche visioni, corrono nei boschi, gioiose o sconvolte, salgono su alberi o si sdraiano nell’erba alta. In comunione con uccelli e arbusti, immerse nelle sinfonie elementari delle foreste dove ripongono sensi, pelle, cuore e ossa. Anche dopo millenni, i loro resti sono stati ritrovati dietro antiche radure, dimora di rare farfalle, tassi, cervi occasionali e di tutte le miriadi di altre creature che chiamano casa questi luoghi. Tra le loro righe si sente spesso il profumo della maggiorana che cresce in mezzo all’erba alta, si scorgono more, nocciole o prugne acide da siepe, si assaporano piccole fragole selvatiche di stagione dal sapore paradisiaco. Il nostro sistema nervoso si rilassa come quello di un gatto pigro sotto il verde estivo e cangiante delle chiome dei faggi. Molti degli arcaici frammenti di conoscenza popolare dei boschi sembrano tornare alla mente, ci si ricorda quali siano le foglie selvatiche buone da mangiare, l’acetosa e l’ortica, il tarassaco, il giovane biancospino. Riemerge la conoscenza che la betulla argentata contiene linfa dolce quanto lo sciroppo d’acero, che le giovani foglie di edera hanno proprietà di rafforzamento del sistema immunitario. Torna alla mente che ascoltare il tono dei richiami degli uccelli porta alla conoscenza di quanto ci si ritrovi soli e che gli alberi di sorbo proteggono dalle energie negative.

Senza le canzoni, di alcuni prodigi naturali non si sarebbe mai forse fatta istituzione, visto che nulla si trova scritto spontaneamente su marmi, pietre o cieli ma sicuramente esistevano altari nei campi e l’orizzonte blu fu, un tempo, un duomo confortevole per tutti. Ci si sentiva probabilmente più sicuri di sé quando si contava sui poteri magici di guarigione e si conoscevano sentieri per regni fatati di querce o frassini. Ma prima di ascoltare canzoni, sarebbe bastato continuare a tendere l’orecchio a quello che sussurravano gli antenati autoctoni di questa terra, invece che chiudersi nelle stanze, perché ci si sente più a casa nei boschi! Comunque le canzoni hanno un aroma inconfondibile e una evocazione visionaria che riesce perfino a far abbracciare malinconia, rabbia e danza, niente di quello che si ascolta nel folk reca la sensazione di succedere per caso, nemmeno melodie incantevoli accanto a omicidi raccapriccianti, ipnosi quasi liturgiche a scorribande oscure e irrefrenabili.

Dall’Oriente

In Oriente la musica si ritiene essere di essenza divina, il poeta Echatabi narra sia legata già alla creazione del primo uomo: quando Dio volle donargli anima, questa rifiutò l’unione, in quanto di origine divina mentre lui era composto di materia. Toccò quindi a un angelo entrargli nel corpo e sedurre l’anima attraverso il canto che poi venne insegnato anche ad Adamo, l’anima venne così conquistata e conservando memoria di quelle melodie, non abbandonò più l’uomo. La musica dunque precedette anche la parola. Nei paesi musulmani è Re David l’apostolo musicale come ci ricorda magistralmente Leonard Cohen con la sua famosa canzone Hallelujah. Ma c’è anche chi ritiene sia stato il filosofo greco Pitagora ad avere l’idea di una combinazione di suoni tali da condurre a una melodia: ascoltando inizialmente i colpi di martello su un’incudine e tendendo un filo di seta, inventò un prototipo degli strumenti a corda.
Gli scritti informano che in Marocco fu l’ex schiavo Ziryab (detto “l’usignolo canterino”) all’inizio del IX secolo, a donare basi e leggi alla tradizione orale.
Gli strumenti, secondo le cronache bibliche, vengono considerati divini: “Allah diede potere ai figli di Caino, di fabbricarli: Lamek costruì il liuto, Tubal il tamburo, Dilaj l’arpa, il popolo di Loth la pandora…”

Leonard Cohen

Mantra indiani e Musica classica indiana

Di tutte le forme che agglomerandosi, confluiscono nella formazione del carattere di una popolazione è la musica quella maggiormente in grado di rappresentarne i simboli spirituali. Quella classica del nord dell’India (Hindustani) riflette l’antica egemonia della Persia e dell’Islam all’epoca dell’impero mongolo, che a sua volta aveva soppiantato la cultura indigeno-induista. La sacra città di Varanasi (Bénarès) è situata dagli Indù al centro della creazione, luogo che i colonizzatori inglesi trovavano semplicemente “situato sulle rive del fiume Gange” (che peraltro loro chiamavano “Ganga”).
Anche solo attraverso la sua musica si percepisce come in quel continente, il mondo sia intimamente differente, sorgente di numerosi mondi, luogo da cui in un’epoca o un’altra, tutti sembriamo provenire. E’ indirizzata a nutrire lo spirito visto che anche in quei luoghi, si ritiene che il suono sia stato creato dagli dèi e imprima il suo ritmo all’universo agendo sulle forme superiori e sottili dell’essere. I mantra identificano aspetti della natura nelle differenti parti del corpo, dotate tutte di tremenda forza e purezza divina e gli accordi che le rappresentano sono nello stesso spirito e direzione. Il ripetitivo utilizzo dei mantra invoca questi inconsci poteri interiori attraverso età immemori e tradizioni antichissime. Al ventre, che è ritenuto il luogo dei riflessi organici, sono indirizzati i timbri, le intensità tonali e i movimenti del suono; al torace, luogo dei dolori, dei piaceri, delle avversioni e dei desideri è diretta invece la melodia; alla testa infine, sede dell’intelligenza, è rivolto il ritmo che è l’essenza delle cose. E’ sottinteso che suonare in India, equivalga a servire gli dèi, vieppiù che essi stessi sono ritenuti incarnazioni della musica, essendo nati dal suono.

Quello primordiale (Om) è il mantra più breve, parola associata al segno sacro “Bindu” (punto – goccia) e intonata in ogni preghiera contro inquinamenti, sconforti o altre miserie che si oppongono all’armonia universale e alla pace (shanti) perfetta. Bindu è l’oltre-umano, regno dei karma nelle sue vite precedenti, luna crescente e nettare, sorgente ultima da cui tutto sgorga e a cui tutto torna.

In India la musica non è mai stata considerata in maniera matematica (com’è avvenuto, ad esempio, in Grecia) ma è legata alla mitologia, per questo la tradizione non le attribuisce origine umana. Brahma, Creatore Dai Quattro Volti, canta i testi sacri dei “veda” e il dio vedico Rudra (associato anche a canto e danza) pizzica le corde della “veena” (che è una specie di liuto).
Il processo universale viene simbolizzato da una danza cosmica che il dio ritma sul tamburo (damaru), sorgente primaria di tutti i suoni. Dal flauto di Mahavishnu sgorga la melodia della vita e dell’evoluzione.
Gli ascoltatori occidentali talvolta hanno trovato “monotoni” i suoni dei “raga” indiani, la spiegazione è abbastanza banale: una delle basi estetiche nella parte ovest del mondo, è la ricerca dei contrasti e del loro equilibrio armonico, la musica indiana come quella araba o iraniana cerca al contrario di esaurire tutte le possibilità emotive umane, quindi anche quelle che alcuni (se non molti) cercano di evitare a tutti i costi.

Ravi Shankar
Anupama Bhagwat 

Pensiero musicale

Un pensiero musicale nasce da sentimenti profondi e insondabili ed è in grado di emettere onde misteriose, capaci da lì, di giungere ovunque, annullare in un attimo distanze geografiche e temporali. Purtroppo di molte delle antiche musiche indigene del mondo sono rimaste generalmente solo reminiscenze ma i linguaggi dei suoni sono lo stesso talmente potenti da risultare in qualche modo, comunque percepibili. Accordi sublimi evocano tutto ciò che è caro alla vita, emozioni e tenerezze naturali, dalle armonie degli animali liberi alla bellezza femminile, i sentimenti palpitano nelle sonorità con forza di accenti, calore e colore. In musica “preservare” non significa superficialmente “conservare”, ciascun recupero ha bisogno di uno sviluppo, nessuna musica evolve in assenza di nuove creazioni, diventa sclerotica e sparisce prima o poi. Ma la sua evoluzione non può prescindere dalle radici, perfino quelle apparentemente più pregnanti di vitalità sono variazioni ritmiche o melodiche legate a culture millenarie. Ci sono luoghi come il Viet-Nam dove i musicisti, per rispetto, prima di eseguire una melodia tradizionale, improvvisano in modo personale, un preludio chiamato “rao” o “dao”.

Americhe

Dall’altra parte della Terra vive un repertorio dagli innumerevoli ornamenti melodici e ritmici di chacarera, zamba, milonga, vidala, rasguido, zamba della danza criolla o della canción india…quando suonavano le corde argentine della chitarra di Atahualpa Yupanqui prendevano la forma del folklore per celebrare i grandi paesaggi andini così come gli spazi interiori dei loro più miserabili abitanti. Tra mondo sensibile e sfera intima, discorso collettivo e solitudine dell’anima, lotte e vertigini di sentimenti in un percorso senza fine di resistenza, fraternità, uguaglianza, solidarietà, unità.
Questi ritmi riportano a Madre Terra, ben oltre i nostri confini immaginari poiché in musica nulla appare impossibile per l’uomo, come mirabilmente recita la “Saggezza indigena” del poeta guatemalteco Miguel Ángel Asturias: “…qui c’era una valle, ora si leva un monte, là c’era un monte, ora c’è un abisso, il mare pietrificato si trasformò in montagna e i lampi si cristallizzarono in laghi, sopravvivere ai mutamenti è il tuo destino…”


Occidente
https://ontanomagico.altervista.org/alimurgia.html
https://ontanomagico.altervista.org/fiori-erbe-buone-maniere-e-pruderie-nelle-antiche-ballate.html
https://ontanomagico.altervista.org/oiw.html
India
https://www.blogfoolk.com/2021/06/ravi-shankar-il-lamento-sul-sentiero.html 
America del Sud
https://www.blogfoolk.com/2022/08/atahualpa-yupanqui.html

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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