Karantez evit an telenn (Amore per l’arpa)

l'arpa
arpa di ossa

L’arpa è l’unico strumento le cui corde sono in verticale, sospese nel vuoto, la sua stanza armonica è fatta d’aria. Gli antichi bretoni dicevano che il legno delle arpe porta nel proprio alburno la memoria dei suoni.
Sarà per quello che ognuno ci sente quello che vuole, dal canto delle balene, al volo del falco o al sibilo delle onde che si ritirano nel riflusso.

Col tronco dei salici tagliati al tempo della luna nuova, gli arpisti celti formavano le casse di risonanza dei loro strumenti. Un vecchio proverbio gallese ammonisce a non bruciare mai il salice, che è l’albero dei poeti e degli incantatori. La voce di risonanza dell’arpa è il vento, che zigzagando tra tempeste e brezze oceaniche, attraversa le valli e assieme alle mouettes raccoglie la creta delle onde e il mormorìo delle fonti sepolte, fino a portarlo nelle linfe di cui vivono gli alberi. L’arpa pare proprio essere la voce dell’anima.

Remote origini dell’arpa

suonatore d'arpa
arte greca: suonatore d’arpa

L’arpa è passata dalle mani dei Sumèri a quelle degli Assiri, dagli Egiziani ai Siro-Fenici, dalla Civiltà Egea ai Paesi Celtici.

Alcune statuette cicladiche scoperte nell’Isola di Kéros, mostravano un trigono che è inequivocabilmente un’arpa angolare, probabilmente dotata di una ventina di corde di differenti lunghezze e di una notevole gamma di scale. Uno strumento delle dimensioni di una lira o di una cetra che poteva comodamente essere appoggiato sulle ginocchia di una persona seduta che faceva vibrare le corde con le dita. Il trigono risulta tradizionalmente introdotto a Roma da Alessandria d’Egitto. Sovente negli antichissimi monumenti egiziani viene rappresentato un tipo di arpa del tutto identico.

In Occidente apparve in Irlanda che già prima dei Celti aveva rapporti con l’Oriente, però anche i Celti prima di immigrare in Irlanda ebbero ripetuti contatti con le Civiltà Orientali. Fatto sta che nel corso del X° secolo le Leggi di Hywel, sovrano del Regno di Gwynedd (Galles) precisavano che “Tre sono le cose importanti per un gentiluomo: la telyn (arpa in gallese), il mantello e la scacchiera ma ciò che gli è veramente indispensabile sono una sposa virtuosa, un cuscino sulla sedia e un’arpa ben accordata”.

Perfino Dante e Galileo hanno elogiato i meriti degli arpisti delle terre d’Oltremanica.

Rory Dall O’Cahan (Ruaidhrí Dall Ó Catháin, in irlandese) dovrebbe essere stato un arpista e compositore irlandese. Nato intorno al 1580 nella Contea di Antrim e morto intorno al 1653. La sua composizione Tabhair dom do Lámh (Dammi la tua mano) pubblicata originariamente con il titolo latino Da mihi manum è stata ripresa da Seán Ó Riada e poi ovunque tutti l’hanno interpretata, Chieftains in testa. Era nata in onore di Lady Eglington per mano del permaloso compositore, erroneamente talvolta attribuita al più famoso Turlough O’Carolan.

La versione più originale di Tabhair dom do Lámh è quella dei Planxty che nel 1973 con un colpo di genio fecero seguire questa melodia a Raggle Taggle Gypsy creando una irresistibile accoppiata.

L’arpa nel Medioevo

In Bretagna, dopo che i missionari irlandesi la introdussero, gli arpisti cantavano i lais durante l’epoca medioevale. Quelle narrative storie d’amore in rima che contemplavano al loro interno anche temi sovrannaturali e magici dell’universo celtico. Forme brevi di letteratura cavalleresca in francese e talvolta anche in inglese.

Il XII°, il XIII°, il XIV° e il XV° secolo furono l’età d’oro per questo strumento.

Luminarie, sculture e pitture lo attestano. Purtroppo di quei menestrelli bretoni, nessun canto è giunto fino a noi. Attraverso l’oralità però alcuni riferimenti hanno comunque circolato e sono entrati a costituire la trama dei gwerzioù o altri canti popolari che oggi ascoltiamo. Beninteso: senza accompagnamento strumentale. In Bretagna risulta impossibile per un arpista far riferimento ad una tradizione musicale, perché dalla fine del Medioevo questo strumento era totalmente sparito. Fino alla rinascita degli anni ‘70 che tutti ben conosciamo. Anche le tablature erano state distrutte. Rimane qualche documento, ne ricordo uno datato 1069 che cita, ad esempio, un arpista di nome Cadiou alla corte del Duca Hoel de Cornouaille a Kemper.

Siamo stati davvero fortunati a vivere nell’epoca in cui Jord Cochvelou, impiegato del Ministero delle Finanze francese, appassionato di cultura bretone, musicista e liutaio, decise di dedicare tutto il suo tempo e la sua abilità alla ricostruzione di una autentica arpa definita “celtica”, strumento oramai dimenticato da secoli. E che inoltre il destino gli avesse concesso tale bambino, “fils de son père”! Già nel corso del XIX° secolo si era tentata una rinascita, perché nel cuore dei Celti l’arpa irlandese è sempre rimasta ben presente.

Innumerevoli nel corso della Storia sono stati i suonatori d’arpa.

Gli arpisti-soldato che suonavano le marce, come quella che accompagnò la bara del Re irlandese Brian Boru, nell’XI° secolo. Gli arpisti-zingari che hanno fatto perdurare la tradizione della tripla arpa gallese fino al XX° secolo. Gli arpisti-cacciatori e gli arpisti-fabbri dell’Africa Centrale che ancora oggi celebrano i loro riti al suono dello strumento, trasformando in canto le parole sacre. E poi gli arpisti delle Ande, del Paraguay…senza dimenticare gli arpisti-pastori delle colline di Viggiano che chiedevano un obolo lungo le strade delle grandi città europee, americane e australiane, durante il XIX° secolo.

L’arpa popolare italiana

Uomini che portarono ovunque con la loro “arpicedda”, la musica folkloristica italiana, la canzone napoletana e le arie operistiche. Questo paesello della Val d’Agri, in provincia di Potenza, ha dato i natali all’Arpa Popolare Italiana, piccola, artigianale, diatonica e portativa, dotata di una ventina di corde e che rappresentava l’unica loro fonte di sostentamento durante i viaggi alla ricerca di fortuna.

Fino all’arpina napoletana accordata in una scala minore arcaica e tipica che si rifà a stilemi orientali, suonata nel 2009 da Enzo Avitabile nelle sue accorate e struggenti lamentazioni “scritte nel cemento”, “Don Salvatò”, amaro capolavoro, su tutte.

Enzo Avitabile, Don Salvatò
testo e traduzione a cura di Flavio Poltronieri

Ad un certo punto di un immenso cammino l’arpa ha cercato altre strade, fuori dal suo millenario mondo acustico.

Nei nostri decenni, alcuni arpisti bretoni hanno iniziato ad andare oltre l’orizzonte: Alan Stivell, Kristen Noguès, Kirjuhel. Le musiche di questi ultimi due (che a lungo mi hanno onorato della loro vicinanza), salgono alla gola con radici di terra e anche di oltre terra. Le loro melodie sono la nostalgia di un qualche altrove. L’armonia è la parte d’infanzia che tutti ci accompagna. Le improvvisazioni compongono il desiderio, il sogno che si solleva dal fondo delle dita.
Alan Stivell ha composto la sua Sinfonia Celtica all’inizio degli anni 80. Ha inteso con essa aprire la seconda spirale della propria ricerca. Opera fondamentale, le influenze celtiche di questa sinfonia sono particolarmente quelle legate al Bro-Gwened vannetais e al Kernew-uhel dell’Alta Cornovaglia, senza dimenticare la musica per bagad e quella medioevale per arpa e penillion gallesi. Naturalmente non è secondaria l’influenza del piobaireachd (pibroc’h), la musica classica per cornamusa del Donegal e delle Isole Ebridi. Da questa porta si entra in una grotta che apre nelle viscere di Keltia, tutto è adattato al suono dell’arpa, anche il piobaireachd stesso, questa musica astratta, nata ai piedi delle Highlands nel XVI° secolo dalle antiche memorie dei raga indiani. Un cammino inverso a quello storicamente fatto in Scozia, dove si è progressivamente abbandonato l’arpa per la cornamusa, in parallelo all’evoluzione della società caledoniana che cancellava dalla sua realtà ogni traccia zen.

Il Continente Antico e la Sinfonia celtica di Stivell

Se il Nuovo Continente è composto dalle due Americhe, anche l’Europa e l’Asia sono una massa continentale unica, non esiste separazione geografica e quindi neppure un confine riconosciuto. A dirla tutta potrebbe esistere anche l’Eurafrasia perché l’Istmo di Suez unisce Eurasia e Africa. Questo mega-continente ha come limiti le acque dell’Oceano Artico a nord, Pacifico a est, Indiano a sud e Atlantico a ovest. Da ciò consegue che la Bretagna è il Finisterre dell’intero Continente Antico. Mi piace pensare che questa sia una possibile spiegazione dell’utopico pentagramma della Sinfonia Celtica di Alan Stivell. La qualifica “celtica” la libera dalle strette regole della sinfonia classica e nel suo tendere all’unione nelle differenze, individua una possibilità immensa da parte della nuova musica post-industriale del terzo millennio. Quella di andare verso una fratellanza globale naturale, attraverso gli effetti congiunti dei vari respiri, nel rispetto reciproco delle differenti culture coabitanti la Terra. Stivell con i movimenti circolari del suono di quest’opera, che si sovrappongono probabilmente ai tormenti e alle redenzioni del proprio passato, vorrebbe dare forma a un suono del futuro fatto di dipartite elegiache che comprendano diverse radiografie di una stessa anima lungo un percorso sonoro tra strada conosciuta e sperimentazione.

La Sinfonia Celtica è emblematico riflesso di un’arte pura e totale, non una musicalità avanguardistica come siamo più abituati ad ascoltare all’interno di altri generi musicali ma senza dubbio di gran respiro in campo folk. Una ingenua ma catartica visione tra i solchi delle partiture e dei paesaggi sonori che evoca le rive dell’arcipelago celtico, sognato ma restando svegli. Encomiabile tentativo di prolungamento delle più amene profondità interiori.

Già Damone, teorico della musica (antenato del moderno “musicologo”), greco ateniese del V° secolo, sostiene nell’Areopagitico, che la musica aveva il potere d’influenzare molti degli stati d’animo umani. Non solo agiva sull’ethos individuale ma pure dell’intera società. Arrivò fino a sostenere che un mutamento in campo musicale avrebbe portato ad una rivoluzione nelle strutture politiche e sociali di una intera collettività. Anche Platone diceva che la musica, in base alle sue proprietà, era in grado di entrare nel corpo degli individui e ivi generare sensazioni. La sua teoria era che, non essendo in grado di attraversare la materia, il suono entrasse dal foro dell’orecchio (che altro non era considerato, all’epoca) e andasse direttamente a colpire cervello, cuore e fegato, ovvero gli organi dove si riteneva risiedesse l’anima.

Link
http://ontanomagico.altervista.org/encomio-arpa.html
http://ontanomagico.altervista.org/arpa-celtica.html
http://ontanomagico.altervista.org/piva.html

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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