E così si chiude anche questo tempo fuori dal tempo, fuori dai luoghi, nella stagione del nord, nel nord delle stagioni.
Quest’ora di silenzio, di equilibrio tra bellezza di luce e bellezza di ombre, di nuova luce-bambino, di tagli di luce oblique e notti gelate. A cavallo tra vecchio e nuovo anno l’intricato labirinto dell’immaginazione popolare, sia pagana che religiosa ufficiale, disegna una concezione del mondo dove si tessono reti di credenze a testimoniare, ribadire e confermare i misteri. Ma a misteri immensi e celesti potrebbero rispondere solamente potenze che risultassero ancora superiori, non certamente quelle umane a cui restano consolatori miti, sogni, immaginazioni, racconti. Comunque sia, le canzoni tradizionali esercitano sempre un’attrazione intuitiva e misteriosa che ci indirizza, come il coniglietto della piccola Alice, verso spazi poetici di fantasia, silenzio, magia, umanità difficilmente conciliabili con quello che i nostri occhi terreni vedono dintorno. Rivolgiamo quindi un ultimo pensiero di commiato all’Armorica invernale, ricordando alcuni dei suoi proverbi perché ogni cosa può nascondere altro e apparire simbolica.
La Luna
C’è poco da scherzare, per esempio, con la luna! Durante le nottate di luna piena sotto il lucente cerchio, può capitare di scorgere la sagoma del ladro di ginestre e a seconda dei casi, si può trattare di “Al laer lann”, “Paotr e vec’h lann”, “An barter lann”, “Ur fogodenn lann war e choug”. Il fascio di spine che tiene insieme il bottino, nell’Alta Bretagna, si trasforma in un fascio di jan o fonilles o faguilles, ovvero felci e rovi morti. Ma il racconto rimane sempre quello: la leggenda che in una sera d’inverno al chiarore lunare, un signore sta tornando a casa un po’ più tardi del solito e incontra un tipo, invero poco raccomandabile, sulla strada proprio nei pressi di casa sua. Sulle spalle regge alcuni fasci di ginestre secche. Lesto si avvicina, chiedendogli a brutto muso “Hai forse preso queste ginestre dalla mia brughiera?” “Assolutamente no!” replica il tipo “Questa ginestra non ti appartiene!” Ma l’altro lo incalza sospettoso: “E saresti disposto a giurarlo davanti alla luna?” indicandola minacciosamente con il dito e rievocando in questo modo l’antica tradizione di non spergiurare assolutamente mai davanti alla più fredda stella del cielo. “Mi inghiottisca la luna se ho preso questa ginestra dalla tua terra!” è la secca risposta dell’uomo che non ha quasi neppure terminato l’affermazione quando la luna piena lo inghiotte all’istante.
Bisogna fare bene attenzione ai chiari di luna che in bretone si chiamano “Heol al loar” ovvero “Sole della luna”. E questo perché: “Kredet veze gwechall penaos al loar a oa un heol kozh hag a oa deut re gozh da sklerijenniñ an deiz. Se zo kaoz an Aotrou Doue nâ laket anezhañ da sklerijenniñ an noz” (Un tempo si credeva che la luna fosse un vecchio sole, oramai diventato troppo anziano per illuminare il giorno. Per questo il Signore Dio gli assegnò la luce della notte). Questo varrà alla luna, nel solo Pays Gallo, il soprannome di “Sole delle volpi” mentre per il resto dei Bretoni è il “Sole dei lupi” (Heol ar bleiz). La saggezza popolare sostiene esistano svariate lune che sono state spazzate via semplicemente per creare delle nuove stelle, questo significa il proverbio “Loariou kozh drailhet vezent d’ober stered” (Le vecchie lune si frantumano in stelle).
Anche nell’Europa dell’est il simbolismo surreale della poesia popolare ungherese fa recitare, ad esempio, a una vecchia canzone folk della regione Kalotaszeg (la “Țara Călatei” della Romania occidentale, piccolo territorio triangolare ad ovest di Cluj che custodisce le gran parte delle tradizioni magiaro-transilvaniche) “…io sono quello che continua a curiosare tra le nuvole del cielo, ad aprire le nuvole alte…” Ovunque esistono concezioni popolari dell’immensità paradisiaca, proverbi, detti, canzoni, filastrocche che relazionano costantemente l’umano con i misteri sovrannaturali. Nella quotidianità a guidarlo sono esperienza e conoscenza ma le “porte delle nuvole” di cui parla questa canzone aprono e oltrepassano i cancelli magici che separano vita terrena e aldilà. Nessuno può davvero farlo in realtà ma le canzoni utilizzano, attraverso lacrime, preghiere, magie, quelle stesse chiavi che pennelli colorati o canti gregoriani latino-medioevali adoperavano per aprire la Porta Celeste. Certe voci e certi suoni paiono davvero riuscirci, poco importa se in modo santo o demoniaco, con folk, jazz, blues, classica, a est come a ovest, a nord come a sud, gli esempi non si contano da parte di uomini e donne. Ciascuno elegga i propri preferiti, Signori! E nessuno si permetta di storcere il naso!
Il Cielo
Moltissimi, fin dalla notte dei tempi, hanno rivolto lo sguardo al firmamento lassù. Affascinati dal mistero di quella strabiliante immensità, hanno infinite volte provato anche a spiegare l’inspiegabile, percorrendone con creatività e ingenuità, gli intricati labirinti.
Il Cielo è stato paragonato a mantelli azzurri, grigi, rossi, neri, Jacques Brel ha voluto sposare questi ultimi due nella più bella canzone che mente d’uomo ricordi (“…et quand vient le soir pour qu’un ciel flamboie, le rouge et le noir ne s’épousent-ils pas…”). A seconda di umori, eventi, speranze, su quella tela mille personaggi hanno fatto apparizione o disposto i propri presunti poteri sovrannaturali. La poesia ha descritto l’azzurro brillante di un “primo cielo” (o “vecchio cielo”, come lo chiamarono altri) per farne ornamento.
A Plufur, in Bretagna, quando dalla costa si vede il cielo grigio squarciarsi per lasciar spazio a una macchia d’azzurro, si dice “Fregañ a ra an oabl” (Il cielo trema) perché si pensa che San Efllam indossi in quel momento, il proprio mantello blu marino (“Sant Efflam ‘neus laket e voned glas-mor”). Nella regione di Vannes i sarti preparano per la Vergine un mantello di stoffa dello stesso colore ma a Kerlouan il mondo pagano lo prepara piuttosto di color verde (“Ar Pagan ‘neus Lakeet e voned glas”). Nel Trégor è San Pietro che scosta il grigio delle nuvole per mettersi la tunica (“Gwisket eo gant sant Pêr e vragù glas”) ma una versione aggiornata della leggenda cambia il tessuto marino per creare (e anche rattoppare quando è il caso) i pantaloni dei gendarmi, conosciuti tutti perciò con il nome di “figli di Maria”. Questa Maria non è la Madonna ma si tratta di una popolana che in vita generò ben nove figli destinati a diventare tutti…gendarmi, naturalmente!
Al tempo in cui stava per scoppiare il secondo conflitto mondiale un vecchio (in alcuni altri casi si tratta di una vecchia) bretone disse a una donna: “La guerra sarà tremenda, si vedranno solamente il colore del fuoco e il sangue nel tempo, altro che aurora boreale” la risposta fu:“Prima dell’altra guerra io ho visto una cometa ed ero terrorizzata, dietro il vetro, che mi cadesse addosso, qualcuno sosteneva si trattasse di una bestia che poteva trascinarti giù con la sua coda”.
Un tempo nelle fattorie del Pays Gallo erano le galline a fornire le informazioni utili sul tempo a venire, in base al fatto che sguazzassero nella polvere o si accucciassero, si sapeva se il cielo si sarebbe fatto scuro e sarebbe piovuto. Chi voleva uscire si organizzava la camminata in base a: “Ruzell veure, lak da votou-ler Ah kae da vale. Ruzell noz, Glav pe avel da antronoz” (Rossore mattutino: metti le scarpe e vai a fare una passeggiata. Rossore serale: pioggia o vento per domani). Nel mondo popolare esiste spiegazione per ogni cosa, compresi gli eventi atmosferici, un’altra filastrocca infantile afferma: “Tad kozh a lâre ‘vel-se pa veze glav oc’h ober ‘pad ur pennad mat: ‘barzh kwrec’h war Vre a zo laket un dall da gomandiñ glav met peogwir eo dall pa vez deut e viz ‘maez ar montern eo pell esañ kât nehi, se zo kaoz oa dour ‘pad pell amzer, ‘ha dato ket toull ar bond goude” (Il nonno ci raccontò che fu un cieco a ordinare la pioggia lassù sul Méné-Bré, togliendo il dito dal tappo del barile che la conteneva ma siccome non ci vedeva bene, ebbe bisogno di un po’ di tempo per trovare nuovamente l’apertura e richiudere. Per questo alcuni acquazzoni durano così a lungo).
Le favole tengono insieme tanti cantautori inglesi probabilmente grazie alla forza del legame della tradizione celtica e sassone con saghe e leggende. Nella canzone autorale francese è stato al contrario piuttosto il senso di vuoto, quello che l’esistenzialismo ha voluto cogliere nell’angoscia di assenze di libertà e viaggio. Senza queste, inutilità e vuoto la fanno da padroni nella vita dell’uomo. La rinascita culturale degli anni ’70 in Piccola Bretagna ha goduto di occasioni da entrambe loro e la sua storia e natura ne sono infatti bene intrise. D’altronde basta recarsi in quei luoghi geografici, uscire dai sentieri consigliati dal turismo, frequentare silenzi, suoni e fonetiche regionali. La tradizione non è diamante poetico bello solo a vedersi, non è per nulla inerte alla ricerca di un senso, non è uno scarto del presente, un inutile gioco, bensì parte integrante dell’esistenza che si estende con fluidità tra passato e futuro. La tradizione in genere, è una dimensione dell’anima e nel lontano delle cosmologie arcaiche, nell’irrazionale, nelle radici piantate nel sottosuolo, risiedono tutte le ansie di cambiamento di una popolazione.
Le antiche feste di Fine Anno in Europa
In antichità la fine anno veniva festeggiata dai Romani tra il 27 e il 24 dicembre, in coincidenza con il solstizio d’inverno. Era Saturno il dio di quelle semine in un periodo in cui i campi non dovevano esser coltivati e donavano senza bisogno di ulteriori interventi, latte, nettari, miele. Le piante sempreverdi erano simboli della persistenza naturale di vita attraverso freddo e oscurità. Il vecchio dio Saturno che Brassens trovava “assai inquietante” nel fare i suoi giri di clessidra, aveva governato senza scossoni ma adesso doveva andarsene e senza rumore, mentre tutto intorno regnava il giubilo popolare. Il sovrano dei Saturnalia, antenato di quello del Disordine o del Fagiolo, chiudeva tribunali, scuole, mercati, azioni militari, la gente faceva quel che gli pareva, uno schiavo, a sorte, era nominato maestro di cerimonia e quel che decideva, per qualche giorno, diventava legge. In ogni luogo, in ogni casa, i ruoli si invertivano perfino tra padroni e servitù, nella settimana dei Saturnalia tra banchetti, regali e travestimenti di ogni tipo (anche fra uomo e donna) non si soffrivano più né freddo, né fatiche, né dispiaceri e tutti si sentivano re. Dal IV secolo d.C. alcune di queste ritualità pagane sono state inglobate nel Natale della religione cristiana.
Esattamente in quel momento nel nord Europa la tradizione germanica pre-cristiana, al contrario della Luce, festeggia i Morti con lo “Yule” (in norreno “Jól”, che potrebbe derivare da “Hjól”, ovvero “ruota” riferimento alla ruota del tempo che si trova, in quel periodo dell’anno, nell’estremo inferiore dal quale, in quel momento, inizia a risalire”). Lo si nota bene in racconti, favole, canzoni quanto siano frequenti le presenze maligne, cavalieri e diavoli d’ogni sorta, anche se salute, fecondità, bevute, canti, ceppi incandescenti, vischio (come nella tradizione druido-celtica) spuntano ovunque pure in quei luoghi. E Odino alla fine diventa Babbo Natale.
Spesso si assiste all’uccisione del Re Agrifoglio (“Holly King”) che rappresenta l’anno vecchio e il simbolo di un Sole al declinare, ad opera del Re Quercia (“Oak King”) che lo sostituisce e con l’anno nuovo inizia la sua ascesa, al pari del Sole. Ovunque in fondo, il vento gira le stesse pagine e in mezzo al grande riposo invernale, regna una fiaccola poderosa e profetica che mescola profumo di cannella e candele di Paradiso[1].
APPROFONDIMENTO
Daniel Giraudon – Du Soleil Aux Étoiles Traditions Populaires de Bretagne- Coop Breizh (Spézet), 2007
[1] citazione da Marie-Jeanne-Gabrielle composta da Louis Capart (scheda in Terre Celtiche Blog)
La peine et l’ennui, de l’automne à l’été
On ne vit qu’au rythme des marées
De la naissance au grand Sommeil
Règne le flambeau de la Vieille
On mêle la cannelle
Au parfum des chandelles