Bretagna tra Natura e Lingua

La gente di Bretagna, aspra e solitaria o devastata dagli elementi naturali che sia, sembra perennemente sottostare ad un patto magico che la unisce alla terra. Grazie alle caratteristiche spirituali derivanti da un sentimento di religioso amore verso la natura, ogni racconto è arricchito da simboli che stanno a significare sia elementi astratti ed impalpabili, che fatti concreti e di fisica realtà.

Les Jours Heureux
La Chandelou
I bambini vengono a trovarmi
Emvod
L’exilé des sixties

Les Jours Heureux

«..che ne è delle parole che ci hanno lasciato in eredità?
Si nascondono di notte per vivere in pieno giorno, dimenticano la corte delle ombre notturne
e di dimenticanza in dimenticanza, sono diventate sorde. In fondo alla foresta per inventare la vita,
suonate l’hallali, suonate lalala.

Vogliamo dei palazzi senza marmi,
reclamiamo la sorgente delle nicchie,
la corsa delle cerve, la dolcezza delle pagnotte,
l’eco dei nostri canti, il valzer dai mille tempi, la luna in offerta
e soprattutto che venga resa alle nostra anima la propria terra durante tutto l’anno,
al posto di lavorare, inventare le idee dei giorni felici» (1)

Hamon Martin Quintet

(1) «Les Jours Heureux» – Hamon Martin Quintet dal CD «Les Vies que l’on mène» (2014), testo di Sylvain Girault, è una canzone in omaggio al Programma del Consiglio Nazionale della Resistenza del 15/3/1944

La protezione naturale della Poesia

L’arte bretone nasconde sempre dietro di sé terra, acqua, fuoco. Nelle parole c’è una presa di coscienza lirica. Nelle canzoni, il paesaggio diventa spesso simile al sogno e non di rado possiede e trasmette un rilievo addirittura pittorico. Nella poesia c’è un’orchestrazione dei versi affinchè natura e paesaggio possano passare da scenografia a protagonismo. Luce, ombra e vento ampliano gli orizzonti. Mescolandosi con immaginazione e luoghi mitici fanno pesare dal cielo o emergere dal mare, questa natura selvaggia in tutta la sua potenza. I personaggi bretoni poi, reali o immaginari, sono genti abituate a rischiare, traggono proprio dalla terra, vigore e forza di volontà. Parlano quotidianamente con acqua, vento, solchi, paludi, rami e animali. Questo oggi è un piccolo popolo rinchiuso alla periferia del mondo, in mezzo a rocce e montagne, ma è in possesso di una letteratura che ha esercitato nel Medioevo una immensa influenza e mutato il corso della immaginazione europea, imponendo i suoi motivi poetici a quasi tutta la cristianità.

Dunque, dai margini dei manoscritti medioevali alla visioni fantastiche di popoli e frontiere della contemporaneità, la Bretagna resta un luogo privilegiato di protezione naturale della propria poetica. Forse è l’origine druidica che può meglio lasciar intuire l’armonia con la natura che persiste e che nessun cattolicesimo ha saputo distruggere. L’uccello che canta risponde alle questioni dell’uomo, i latrati di un cane ne annunciano la morte imminente, i ruggiti del vento notturno sono le voci degli annegati che reclamano una tomba e così via. I Druidi furono portatori di una religione basata sulla storia degli elementi naturali, sulla conversazione continua con le specie animali, non meno dei Greci o degli Indù. La lingua bretone stessa, risulta espressione di profonda intimità con la natura, un esempio è il verso del tarak (2) che suona «quit, quit, quit» e che in Bassa Bretagna significa «ce ne andiamo». La poesia di lingua gallica fa parte del paesaggio, cosa che ben difficilmente si potrebbe sostenere, ad esempio, per quella inglese, così recente, poco originale e che ricalca costantemente i passi dei classici.

(2) si tratta di un uccellino bianco con una macchia nera sulla testa, il becco e le zampette rosse che appare in aprile e sparisce in settembre; il suo arrivo annuncia il bel tempo ai marinai

Terra di sogni e di malinconia

In Armorica, sovente si parla in versi e le parole pronunciate, immerse nell’ambiente naturale assumono valenze talvolta inedite. Significativo, attraversando i monti della Cornovaglia durante le sere d’estate, ascoltare il canto dei pastori, le loro quartine che si rispondono di roccia in roccia, i versi che volteggiano nell’aria come insetti serali. Dalla fusione contadina con il paesaggio proviene spesso anche la miglior letteratura del XIX° secolo. I Bretoni sono esattamente come la loro terra: sognatori e malinconici. Un paesaggio di erica rosa mescolata a fiori gialli (les ajoncs), un cielo sempre nebuloso, una landa sovente sterile, dei monti bassi, nudi e neri con rocce che salgono fino alle loro sommità, disegnando l’orizzonte lontano, delle loro forme angolari. Le cime di alberi che si pelano e si torcono, il granito che perfora ad ogni passo un terreno troppo magro per riuscire a rivestirlo e un mare quasi sempre oscuro che forma all’orizzonte un cerchio di gemiti che paiono eterni. Così la natura entra nell’uomo in una forma psicologica prima ancora che fisica, forgiando una appartenenza singolare, una «bretonnité» che è indipendente dai documenti di identità ufficiali. Provare per credere. Sulle montagne, nella valli profonde è davvero assai facile per il passato rivivere continuamente nel presente. Con un po’ di suggestione pare di entrare negli strati sotterranei di un’altra epoca, come quando leggi Dante Alighieri che ti conduce da un cerchio all’altro del suo viaggio fantastico durante la Settimana Santa dell’anno 1300.

Pierre-Auguste-Renoir: Paesaggio bretone, 1893

La Chandelou

La Primavera, ogni anno, arriva venti giorni prima che a Parigi. Il visconte François-René de Chateaubriand, originario di Saint-Malo e fondatore del Romanticismo letterario francese, ne parla nella sua opera autobiografica postuma Memorie d’oltretomba (1849-1850).

Di come i cinque uccelli che la annunciano, rondine, rigogolo, cuculo, quaglia e usignolo, giungano inizialmente nella penisola armoricana, assieme alle brezze ospitate in questi golfi.

Il primo di febbraio è anche il giorno della Primavera Celtica, rimembranza dell’antica Festa d’Imbolc (Oimelc – Imbolic), quella della luce crescente legata alla Dea Brigid, ovvero la Candelora, una delle tante ricorrenze cristiane che hanno semplicemente sostituito quelle pagane di origine celtica. Punto mediano tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera.

Violaine Mayor, Joël Herrou – La Chandelou

I bambini vengono a trovarmi

Per descrivere il ruolo della natura nelle idee, anche all’interno della letteratura intellettuale bretone contemporanea, gli esempi non mancano: c’è una poesia, ad esempio, di Paol Keineg in cui una vecchia donna medita sul fatto che i bambini abbiano perduto il contatto con lingua e natura. E’ una poesia del marzo 1973, contenuta nel libro dal titolo Mojennoù Gwir (Storie Vere), pubblicato l’anno seguente.

Dont a ra ar vugale du-mañ
E tro an noz digor
Hag e c’houlennont diganin ano
Ar plant ar bleuñ v an evned
Hag evito an holl vleunioù
A zo pakred boutoñ dor o ano
Evito an holl evned
A zo filiped
Goulenn a reont ar maen-tan ar greun
C’hwezhañ a reont war glogor ar c’houmoul
Ha me o patouilhat e teil ar re varo
Ha me va-unan o kompren
Ar vugale hag ar re varo

I bambini vengono a trovarmi
Al calar della notte
E mi domandano il nome
Delle piante, dei fiori, degli uccelli
Loro, per i quali tutti i fiori
Si chiamano margherita, ranuncolo
Loro, per i quali tutti gli uccelli
Sono dei passeri
Si interrogano sulla pietra focaia, il seme,
Soffiano sulle nuvole a bolle
Io sguazzo nel letame di quelli che sono morti
E sono l’unica a capirli
I bambini ed i morti
(traduzione Flavio Poltronieri)

La lingua bretone nella letteratura è questione delicata. C’è chi sostiene non ci sia alcuno spirito nuovo da creare, che la poetica della Bretagna sia soprattutto una volontà, un apostolato utile a farla dialogare con il resto del mondo e chi si interroga sul divario tra lingua letteraria e quella parlata quotidianamente dalla gente.

Emvod

A riguardo la «bretonnité» c’è una poesia precedente, musicata in forma canzone da Youenn Gwernig, dal titolo Emvod (Riunione) e registrata (come quasi sempre in tre lingue) nel novembre del 1990, all’interno del CD Emañ ar bed va iliz (Il mondo è la mia chiesa), che descrive nello specifico il suo incontro con Jack Kerouac

Adkavet am eus va breur
n’eo ket bet ken aes
ret ’oa bet troc’hañ didruez an drezenn
louzeier loustoni kresket a-builh
ha nijal
nijal n’eo tra ‘bet ken ‘vit mab an den

Adkavet am eus va breur
n’eo ket bet diaes
hag eñ kouskoude
aet diouzh ar gêr tri c’hant bloaz zo
ankouaet, beuzet, lonket yezh an tad
met en e zaoulagad
meus kavet – glan-
ijin hor gouenn

Ho ritrovato mio fratello
non è stato così facile
è stato necessario tagliare i rovi senza pietà
le erbacce invasive
e volare via
volare via è diventato comune per il figlio dell’uomo

Ho ritrovato mio fratello
è stato facile
dato che aveva
lasciato la casa trecento anni fa
e dimenticato, annegato, inghiottito la lingua del padre
ma nei suoi occhi
ho ritrovato pura
l’immaginazione del nostro popolo
(traduzione Flavio Poltronieri)

In questo caso l’ambiente era l’esilio americano che Gwernig aveva vissuto sulla propria pelle ma la questione può essere allargata universalmente. PêrJakez Helias, ad esempio, con la sua proverbiale arguzia, arriva lontano «ci muoviamo per volontà o per obbligo, grandi crisi o guerre trasformano milioni di noi in deportati o esiliati, siamo forse destinati a ridiventare nomadi?»

L’exilé des sixties

Ma in Bretagna, facilmente, lo stesso argomento può essere affrontato anche fuori dalla letteratura, da una rock band come i Tri Yann che nel 2011, in Rummadoú (Générations) inseriscono L’exilé des sixties, ovvero la storia di Jean-Pierre Le Bihan, contadino armoricano in rovina, anch’egli esule degli anni sessanta del secolo scorso. I Tri Yann che nei loro sfavillanti ed esuberanti concerti non sono certo poeti, quanto piuttosto giocolieri, teatranti, notabili, griots, banditori, araldi politici, storici, pagliacci, naviganti, mimi, troubadours. Cosicchè ogni loro rito iniziatico possiede lo stesso valore del passaggio attraverso la grande porta di Bretagna, ovvero il pedaggio di Ancenis sull’autostrada A11, che i francesi chiamano l’Oceane, proprio perchè è la via maestra tra la regione parigina e Nantes.

« …hanno messo un mazzo di carte in mezzo alla tavola
e quando ho perso ho capito che mi mancavano le carte buone…
sono corso per il mondo per andare a cercare i re, le regine, gli assi, i jack da Niamey a Bombay e fino in Cina, da Lima a Cuba e a Austin
…ho visto nei monti dell’Asia dei servi farsi la guerra in nome degli dei, dei bambini dagli occhi arrossati sgobbare all’età dei giochi,
su un treno in California, una ragazza con dei fiori mi ha sorriso « Sono Judith e ti offro la mia notte, domani me ne sarò andata, Dama di Cuori, per degli altri luoghi ».
Non so più oggi se ho più nostalgia di lei o del mio Paese »

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Pubblicato da Flavio Poltronieri

Etnomusicologo. Autore e traduttore di canzoni. Ha pubblicato su riviste di avanguardia musicale in Italia/Francia/Germania. Fa parte della redazione giornalistica di Blogfoolk, Lineatrad e leonardcohenfiles.com

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